martedì 24 novembre 2009

Riassunto delle puntate precedenti (Quello che so)

Il direttore creativo di una grossa agenzia pubblicitaria milanese, tal Francesco M., viene trovato morto nel suo ufficio, ucciso con svariate coltellate e una ferocia degna di miglior causa. Delle indagini sull'omicidio viene incaricato il Dott. Calogero Moiano, il quale si imbatte subito nell'evidenza che la vittima non godeva di grande popolarità nell'ambiente. Tutti, infatti, sono felici nel saperlo morto. E tutti, più o meno apertamente, parteggiano per l'assassino (o gli assassini). Nel prosieguo dell'inchiesta il dott. Moiano rinviene un quadernetto scritto a mano dal defunto, il cui titolo: Quello che so, solleva legittimamente un certo entusiasmo nel cuore del funzionario. Il manoscritto promette di rivelarsi molto importante per la risoluzione del caso, e il dott. Moiano si immerge seduta stante nella lettura e decodifica del suddetto. Viene così a sapere che nulla è ciò che sembra. Ma soprattutto apprende dell'esistenza del Pesce Pulitore, metafora sotto la cui coltre si nasconde un obliquo personaggio di sesso femminile che si aggira di notte per il reparto creativo deserto cercando di carpire segreti, occhieggiando campagne pubblicitarie ancora in gestazione, violando computer. Il pesce pulitore agisce in nome e per conto di altri personaggi i quali sono ovviamente troppo furbi per esporsi, e lasciano svolgere il lavoro sporco a chi se ne intende. Il pesce pulitore è anche responsabile della sottrazione e occultamento dell'ultima pagina del manoscritto del defunto. Pur avendo sciaguratamente promesso lealtà alle forze del male, cionondimeno bisogna ammettere che il pesce pulitore spinge la propria devozione fino alle estreme conseguenze, in ciò guadagnandosi una qualche grandezza. Infatti, fedele alla consegna del silenzio, affronta il carcere ed un'accusa di concorso in omicidio, ma non tradisce i suoi mandanti e burattinai. Il segreto contenuto nell'ultima pagina di Quello che so è salvo. E tutto ciò che il manoscritto prometteva non è stato mantenuto. Finora.

mercoledì 23 settembre 2009

Quello che so

Diciannovesima puntata

45.
“La verità è che Francesco M. era uscito di melone, Dottor Moiano. Oppure vogliamo dirla in un altro modo, un po’ più soft? Recentemente aveva avuto una specie di crisi mistica. Il risultato non cambia. Diceva cose strane, a volte raccontava dei sogni che faceva (incubi, più che altro) blaterava che forse era ancora in tempo per rimediare. E rimediare a cosa, esattamente?
Ma soprattutto, pensi che coglione, si era messo in testa di dire la verità, capisce? E che la sua verità avrebbe scatenato un casino senza precedenti. Armageddon. L’Apocalisse. Sentiva di avere questo grande peso dentro, di cui si doveva liberare. Come se a qualcuno gliene fregasse qualcosa, della sua verità, e della verità in generale. E quale può essere la verità scottante sul mondo della pubblicità, poi? Che siamo tutti dei bastardi assetati di una patetica ridicola briciola di potere? Che il più pulito c’ha la rogna? Che tutti, nessuno escluso, passeremmo volentieri sul cadavere di nostra madre con dei tacchi a spillo, pur di avere un fringe benefit in più, un titolo in più, un aumento di stipendio anche ridicolo? E sai che novità.
Ho paura che questo scoop non avrebbe molta possibilità di arrivare in prima pagina, oggi come oggi. Al massimo la pagina dei necrologi. Oggi fa più scandalo la buona educazione e il rispetto per gli altri, temo.”
“Se ha terminato con la sua sparata cinica, dovrei comunicarle una cosa.”
La donna non era abituata alla versione laconico/brusco/burocratica che Calogero Moiano sfoderava solo in rare occasioni (ad esempio quando ne aveva le palle piene) quindi ebbe un moto di sorpresa.
E’ interessante vedere come le persone, anche quelle più apparentemente toste, si sgonfiano all’istante, se adeguatamente punte. Esitante, rispose:
“Sì, ho finito.”
“Bene, allora mi ascolti attentamente. Io sono stato molto paziente, con lei. Più paziente di quanto io sia di solito. E lei se ne è approfittata. Forse ha pensato che tutto questo fosse un gioco, il prolungamento della sceneggiata che recita tutti i giorni. Le comunico che da questo momento lei è incriminata per concorso in omicidio volontario e falsa testimonianza.”

46.
“Ah, che liberazione!”
Il dott. Moiano lo sapeva benissimo che questo non rappresentava la risoluzione del caso. Ma comunque era sollevato dal fatto che almeno per un po’ quella tizia non l’avrebbe più tormentato. Oramai aveva capito che quello che lui voleva sapere da lei, lei non glielo avrebbe mai detto. Quindi, se non poteva sapere cosa c’era scritto sull’ultima pagina del diario di Francesco M. e chi le aveva chiesto di recuperarla e presumibilmente distruggerla, non era più disposto a sorbirsi ore e ore di chiacchiere autoassolutorie.
La vita è troppo breve per perdere tempo in conversazioni noiose.

47.
Nel fallimento generale, almeno un paio di cose buone questo caso gliele aveva portate. La prima è che aveva finalmente preso la decisione di lasciare la moglie alle sue unghie e ai suoi party di beneficenza. La seconda è che aveva avuto una prova ulteriore del fatto che le apparenze ingannano. Non solo, ma spesso anche l’apparenza dell’apparenza inganna. Ed è difficilissimo andare al fondo di tutte queste apparenze e trovare la verità. Ad esempio: il mondo della pubblicità, quello nel quale era maturato l’omicidio di Francesco M. Un luccichio abbagliante, un mondo lieve e felice pieno di soldi, fascino e belle fighe, tutto vissuto all’insegna del glamour. Prima apparenza, quella più superficiale, che viene via con appena un po’ d’acqua (soprattutto quando i tempi non sono esattamente propizi). Appena sotto, si apre un meraviglioso mondo di odi e rancori, violenze e rivalità, nel quale il pescecane più feroce è l’unico che può trionfare. (E il pesce pulitore trovare riparo nel buio della sua ombra.) Seconda apparenza, che assomiglia un poco di più alla verità. Ancora più sotto, nel caso della nostra vittima, una persona che sceglie di nascondersi, con tutte le sue sofferenze e tutte le sue fragilità, dietro un’apparenza squalesca.
Ma per ingannare chi? Per spiazzare chi?
Se stesso o il resto del mondo?

48.
Il dottor Calogero Moiano aveva un suo rituale sacro, dal quale non si era mai distaccato: alla fine di ogni caso, da quando aveva iniziato a lavorare, sia che il caso si concludesse con un successo, sia che restasse insoluto come questo, lui si concedeva una cena nel suo ristorante preferito, uno dei più antichi di Milano.
Aveva più volte riesaminato tutti i dati in suo possesso.
Aveva scorso ancora una volta mentalmente i volti tristi o squallidi o livorosi di tutte le persone che ruotavano intorno a questa storia.
Aveva passato una notte insonne a rivoltarsi sudato nel suo letto quando improvvisamente, come una freccia avvelenata, era stato trafitto dal ricordo di una frase ascoltata settimane prima e mai dimenticata (Forse non c’è un burattinaio. Forse ce ne sono tanti.)
Infine aveva gettato la spugna.
Il diario di Francesco M., Quello che so, era poggiato sul tavolo davanti a lui. Aperto, inutile, e cosparso di molliche di pane. Era stato l’unica cosa che ad un certo punto aveva acceso la sua speranza, ma anche questa speranza era rimasta delusa.
Moiano era assolutamente certo che tutto il diario di Francesco M. fosse stato concepito in funzione di quella ultima pagina, in assenza della quale il titolo stesso, Quello che so, assumeva un tono di sinistra ironia.
Che cosa sai, amico mio? Che cosa sapevi? Scusa se ti chiamo così, ma mi sembra di conoscerti talmente bene che un po’ mi sento come se fossimo diventati vecchi amici. Io sì, che attraverso il tuo diario senza fine ho saputo tante cose su di te. L’unica cosa che non sono riuscito a sapere è proprio quella che volevi rivelarmi, amico mio. La più importante. Almeno dal punto di vista, diciamo così, professionale.
Per una volta il goloso dott. Moiano aveva deciso di rinunciare alla creme broulée, così assaporò l’ultimo sorso di Cognac, si alzò e si diresse verso l’uscita.

mercoledì 9 settembre 2009

Peck Guignol


Mancano due giorni a Natale. Milano è addobbata a festa. Facciamo una passeggiata nei dintorni di piazza del Duomo e a un certo punto capitiamo da Peck. Come il resto della città, anche Peck è in festa. Entriamo. Se possibile tutto è ancora più opulento, esagerato e appariscente di sempre. Ad un certo punto, superata la zona gastronomia, l’angolo del pane, il settore della frutta e verdura fresca, finiamo nello spazio macelleria, affollatissimo di carampane vocianti. Lì, fra polli e tacchini, quarti di bue, cosce di vitello, fegatelli vari e compagnia cantando, c’è anche un maialino intero, adagiato a pancia sotto con la testa rivolta verso di noi. Non ricordo se ha addirittura la mela in bocca come vuole l'iconografia tradizionale ma insomma l’effetto è quello. Pietro lo vede e si avvicina al banco. Capita l’antifona, noi cerchiamo di catturare la sua attenzione e distoglierla verso qualcosa di meno truculento. Inutile. Lui non riesce a staccare il suo sguardo dallo sguardo vitreo del maialino. Si ipnotizzano a vicenda. Quando ha introiettato per bene la faccenda, scoppia a piangere disperato, e saranno veri cazzi per consolarlo. A chi è venuta in mente l’idea di entrare da Peck? A me, credo.

lunedì 7 settembre 2009

Cercando di ricostruire la storia, pezzo dopo pezzo

Il Lettore Di Libri

(seconda puntata)
A chi dovesse interessare, la prima puntata risale al 13 febbraio 2009

3.
Nel loculo dove leggo non ci sono molte comodità, né distrazioni. D’altronde devo leggere, non distrarmi, e a me va benissimo così.
L’unica cosa che mi concedo, di quando in quando, è un sorso di quella insapore bevanda scura e bollente che fuoriesce dalla macchinetta ogniqualvolta si preme con temerarietà il pulsante recante la scritta: caffè.
L’altroieri ero lì davanti alla macchinetta intento a rovistarmi le tasche alla ricerca di qualche spicciolo.
Di spiccioli manco l’ombra, ma in compenso ecco che ti salta fuori dalla tasca un foglietto di carta ingiallito e spiegazzato.
Ancora prima di iniziare a leggere mi interrogai sulla provenienza di quel foglietto dimenticato, e un flash improvviso mi riportò al momento in cui il volume della Treccani stava sorvolando silenziosamente la mia testa. Il ricordo era così vivo che mi è venuto da abbassarmi di scatto per evitare che il tomo mi colpisse. Subito dopo mi sono guardato intorno per vedere se qualcuno mi aveva notato. Fortunatamente nessuno mi nota mai. Che stupido!, pensai. D’altra parte mi ci sentivo spesso, stupido. Meglio ancora: inadeguato. Per l’esattezza mi sentivo così ogni volta che uscivo da un libro ed entravo nella cosiddetta realtà.
Non era scritto a mano ma battuto a macchina, e non appena i miei occhi si posarono su quel foglietto le mie gambe si fecero di burro. Ora svengo, pensai. Il motivo? Le lettere erano un po’ disallineate, e questo mi ricordò in un lampo la vecchia Lettera 22 che avevo amato perdutamente, più di qualunque fidanzata (se mai ne avessi avuta una) durante gli anni del liceo.
Quando ami, perdoni tutto. Di più e meglio: ami i difetti dell’amata o dell’amato come fossero virtù. Ora, che in questo caso l’amata non fosse un essere umano di sesso femminile ma una macchina da scrivere prodotta dalla Olivetti quando era la Olivetti, questo è solo un dettaglio irrilevante. Fatto sta che quelle lettere saltellanti mi procurarono una fitta di nostalgia quasi insostenibile.
Il significato delle parole formate dalle lettere danzanti, invece, mi risultò assolutamente incomprensibile:

“Mentisce chiunque dici, io sono. Fosti vivo, e sarai vivo col forse. Vivi le morti del tempo che fù, muori le vite del tempo che sarà. Finisce di morire chi muore, comincia a morire chi nasce. Ogni istante d’ora, scava un po’ di terra alla fossa: ogni fiato ne porta via una particella di vita.”

Talmente incomprensibile che decisi di dimenticarmene, ma invece conservai il foglietto per il modo sublime in cui era scritto. Meravigliosamente disordinato, intendo.




4.
Fu facile dimenticare quelle oscure parole anche perché erano giorni molto convulsi, per me, e io ero totalmente concentrato su un grande progetto. Ero da poco approdato nella nuova casa editrice, e il mio primo bambino stava per venire alla luce. Di lì a pochi giorni Glok la Sfinge sarebbe stato lanciato in tutto il paese con una tiratura straordinaria per una prima edizione: duecentomila copie. Era una grande dimostrazione di fiducia nei miei confronti, ma stranamente non provavo alcuna ansia, perché ero assolutamente sicuro che sarebbe stato un enorme successo.
Lo so che avevo fatto una cosa un po’ inusuale portandomi dietro il manoscritto di Glok dalla mia precedente casa editrice, ma devo dire che in quell’occasione il mio capo, il lanciatore di enciclopedie, si dimostrò molto generoso. Quando gli dissi che andavo via, nonostante fosse molto intristito mi disse che non mi serbava rancore, e per dimostrarmelo mi diede l’autorizzazione a portarmi via Glok la Sfinge, dicendomi che quella dovevo considerarla la mia dote.
Ora che ci ripenso, ricordo che sul punto di andare via dalla mia vecchia casa editrice per lanciarmi in questa nuova avventura c’è stato un momento in cui ho pensato che non fosse stata al cento per cento una mia decisione.
Vi racconto com’è andata, così anche voi potete farvi un’idea. Qualche giorno dopo il burrascoso incontro con il grande capo (quello con i tomi della Treccani che volavano da una parte all’altra ad altezza d’uomo) ricevo una telefonata inattesa. Doppiamente inattesa, anzi.
Il loculo dove vivo è appena più grande del loculo dove lavoro, essenzialmente perché ci sono un cesso e un angolo cottura. Che a dire il vero potrebbe anche non esserci. L’angolo cottura, intendo. Basterebbe un microonde, tanto quasi tutto quello che mangio proviene dalla rosticceria sotto casa. Quando poi non faccio troppo tardi e trovo ancora una succulenta mezza aragostina bollita, non mi serve manco il microonde. E’ già pronta, aperta, felice, e alla temperatura ottimale. Qualcuno potrebbe dire che il mio stile di vita è dispendioso. Quel qualcuno avrebbe ragione, infatti il mio conto in banca non conosce il colore nero da diversi anni. D’altra parte mi sono detto: Viaggiare: non viaggio. Fumare: non fumo. Donne: niente. Droghe: nemmeno. I libri me li passa la casa editrice. I film li scarico gratis da internet (questa non so se me la passano). Vestiti non ne compro. La mia macchina è ancora la Kadett color aragosta (ci sono delle costanti) che ho comprato usata nel 1985. Quindi vaffanculo, mi potrò anche concedere di comprare del cibo pronto, o no? Voglio vedere se qualcuno ci trova da ridire.
Che finisca alle 6 o alle 7, che finisca alle 9 o più tardi (e allora sono cazzi perché deve entrare in azione il microonde per scongelare qualcosa), che finisca pure a mezzanotte come accade spesso, la mia giornata finisce quando uscito dal loculo lavorativo entro nel loculo abitativo, e chiudo la porta dietro le mie spalle. E’ un gesto al quale attribuisco grande valore simbolico. In quel momento non chiudo solo la porta. In quel momento chiudo il mondo di fuori, e io mi chiudo dentro. In quel momento il mio loculo è il paradiso in terra, e io ne sono l’unico re e l’unico dio. In quel momento non esiste niente se non io, il mio libro e la mia generosa mezza aragostina che si offre in sacrificio per il piacere del suo padrone. Talvolta esiste anche una bottiglia di un buon Sauvignon del Collio, ma questo è un vero optional di felicità.
Mi trovavo in questo stato mentale (compreso il Sauvignon) quando è squillato il telefono. Il telefono fisso, quello di casa. Un suono per me talmente alieno che all’inizio pensavo suonasse dai vicini, quella manica di bastardi. Poi visto che insisteva ho cominciato, non senza bestemmiare tutti gli dei di tutte le religioni monoteistiche e politeistiche a me note, a cercare in ogni angolo della mia vasta magione l’origine di quel suono sconosciuto. Avrà squillato una ventina di volte prima che individuassi il telefono incastrato sotto il divano letto e una volta disincastrato l’oggetto misterioso riuscissi a sollevare la cornetta.
-Pronto, chi parla?
-Parlo con il dottor Bartoli?
-Visto che ha chiamato lei, prima mi dica con chi parlo io, poi casomai le dico con chi parla lei. (Eccheccavolo!)
-Ha ragione, mi scusi. Sono Cisnaghi, il CEO della casa editrice Filippini. Vorrei parlare con il dottor Bartoli. E’ lei?
-(Cazzarola!) Bartoli sono io, ma a dire il vero non sono dottore. Sono solo un umile editor.
La voce di Cisnaghi era calda e gioviale.
-Su, Bartoli. Non faccia il modesto. Ho sentito grandi cose su di lei. Sono felice di conoscerla, ma vorrei conoscerla meglio, e di persona. Cosa ne dice di vederci a pranzo domani, può?
E da chi le avrà sentite queste grandi cose su di me?
-Domani, domani, mi faccia controllare un attimo la mia agenda…
La mezza aragostina mi stava lanciando una mezza occhiata tra l’implorante e il geloso. Sorseggiai un goccio di Sauvignon che nel frattempo si era scaldato. Cazzo!
-Ok, domani a pranzo può andare, dottor Cisnaghi.
-Perfetto, allora. Ora la lascio. E mi scusi di averla disturbata a casa. Buonasera.
-Si figuri, buonasera. (pausa). A proposito, come ha avuto il mio numero di casa dato che non sono sull’elenco?
-…..
Un classico. Quello aveva riattaccato già da un pezzo. Se solo fossi un po’ più svelto a pensare. Ma si può chiedere a un bradipo di sfidare Usain Bolt sui cento metri? Certo che no.

lunedì 31 agosto 2009

La prima buona azione di Jerry Pasquali

Americano di origine italiana, Jerry Pasquali era nato e cresciuto nella zona più povera e malfamata del South Bronx, il quartiere più povero e malfamato di New York. Sopravvissuto miracolosamente, divenne copywriter in un'agenzia pubblicitaria di Manhattan, che non avrebbe mai più lasciato. Molti non sanno cosa voglia dire la parola copywriter, e la confondono spesso e volentieri con la parola copyright, dal significato totalmente diverso. Il copywriter, in buona sostanza, è colui il quale, nella divisione dei ruoli tipica di un'agenzia pubblicitaria, scrive i testi, i titoli e i cosiddetti slogan di un annuncio pubblicitario destinato ad essere pubblicato sulla stampa, o di uno spot, o di un comunicato radio e così via.
L'agenzia in cui aveva cominciato a lavorare era la Grant Castorini Jacobi, 22 Madison Avenue. Tutto iniziò in modo strano, e come spesso accade, casuale. Un giorno, a diciotto anni, gli capitò di consegnare una pizza coi peperoni a Lou Jacobi in persona. Erano le tre di notte. Lou Jacobi aveva i piedi sulla scrivania, la cravatta slacciata e la faccia giallo verde. Quando Jerry entrò nel suo ufficio, il vecchio Jacobi stava buttando giù un po' di Maalox con una smorfia che era tutto un programma.
-Sei il nuovo ragazzo di Al? lo apostrofò brusco Lou.
-Sì.
-E che ci fai ancora in piedi?
-Questa settimana ho il turno di notte. Lei lo sa qual è il nostro motto, no? "Se vuoi una pizza chiama Al, da mezzogiorno al canto del gal."
-Ti piace?
-Cosa.
-Il motto che mi hai appena recitato.
-Mi fa schifo. Ma perché me lo chiede?
-L'ho scritto io.
-Mi dispiace, signore.
-Non devi dispiacerti, ragazzo. Fa schifo anche a me. (Lou buttò giù una altro sorsetto di Maalox). E poi mi piace la sincerità. Pensi che potresti combinare qualcosa di meglio, con le parole?
-Penso di sì, signore.
-Bene, sei assunto in prova. Adesso togliti dai coglioni che devo scrivere altre zozzerie del genere. Presentati domani mattina alle nove.
Nove anni dopo questa conversazione, Jerry era stravaccato con i piedi piazzati sulla stessa scrivania, nello stesso ufficio, con gli occhi persi nello skyline notturno di Manhattan. Pensava al vecchio Lou Jacobi, morto di un attacco di ulcera perforata l'estate precedente, a quarantotto anni. L'attacco fatale gli era venuto dopo che un cliente aveva rifiutato un suo slogan per una nuova mozzarella ipocalorica. Come faceva quello slogan? E chi se lo ricorda. Jerry tirò fuori un piccolo specchio dal cassetto. Si guardò e gli venne il voltastomaco nel vedere il colore giallo verde della sua faccia. Preferì vedere nel piccolo specchio una strisciolina di coca, e poi non vederla più e sentirsela tutta bella sparata nel cervello moscio. Guardò l'ora. Le tre e mezza. E il foglio davanti a lui era pieno di merda. Non c'era neanche la traccia di un'idea decente, di un titolo efficace, di uno slogan convincente. Fra sei ore avrebbe dovuto presentare la campagna di lancio delle patatine Crocchissime, e non aveva niente in mano. Avrebbero perso il cliente. Jerry fu invaso da una sorta di fatalismo. Se il destino voleva che cadesse, non c'era proprio un cazzo da fare.
Suonò il citofono. Jerry, da solo in agenzia, andò a rispondere.
-Sì?
-E' qui l'agenzia Grant Castorini Jacobi Pasquali?
Jerry ebbe un brivido. Dei quattro nomi, il suo era l'unico appartenente a persona ancora vivente, o meglio sopravvivente.
-Sì, rispose.
-E' per quella pizza coi peperoni.
-118° piano.
-Cacchio!
-L'ascensore funziona.
-Beh, ci mancherebbe.
Il ragazzo avrà avuto 18 anni al massimo, e aveva l'aria malinconica e furba di chi si è fatto un gran culo per sopravvivere.
-Sei il nuovo ragazzo di Al?
-Sì.
-E' un po' tardi per stare ancora in giro, no?
-Che vuole, c'ho il turno di notte.
-Senti un po', come fa il nuovo motto della vostra pizzeria?
-E chi se lo ricorda.
-"Una pizza da Al, se vuoi dormire tra due guancial." Fa così mi sembra, vero?
-Già.
-E ti piace?
-Cosa.
-Il motto, lo slogan.
-Mi fa schifo. Mi piaceva di più quello vecchio. Perché?
-L'ho scritto io.
-E la pagano, per questo?
-Già. Sentì un po', visto che ti fa così schifo, pensi che saresti in grado di combinare qualcosa di meglio, con le parole?
-Penso di sì.
-Bene, allora... vaffanculo. Togliti di torno che c'ho da fare, coglione presuntuoso che non sei altro.
Il ragazzo ci restò molto male, ma mentre lo vedeva allontanarsi verso l'ascensore, Jerry Pasquali esultava in cuor suo, consapevole di aver fatto, per la prima volta nella sua vita, una buona azione.

mercoledì 15 luglio 2009

Quello che so

Diciottesima puntata

42.
Pausa pranzo.
E questo era di per sé un avvenimento per il dott.Moiano, poiché per una volta aveva deciso di concedersi una vera pausa e un vero pranzo. Si sentiva inspiegabilmente di buon umore. Di un umore che non corrispondeva affatto al suo stato d’animo abituale. Riuscì per qualche minuto persino a dimenticarsi del vicolo cieco in cui si era cacciato con il caso Francesco M.
Arrivati alla creme broulée, di cui andava ghiottissimo e che aveva imposto anche al suo giovane subalterno, improvvisamente chiese:
"Senti un po’, Franco. Che ne dici se mi facessi chiamare Cal?
Cal Moiano?"
"Non so, dottore, io non…"
"Ti sembra strano? Lo trovi buffo?" (Questa frase la pronunciò imitando Joe Pesci in Goodfellas, ma non era sicuro che il ragazzo fosse in grado di cogliere la citazione).
"No, è che non capisco il motivo di questa…scelta."
"Sai, indagando su questo fottuto caso ho notato che nell’ambiente pubblicitario, a parte le dovute eccezioni fra le quali la nostra vittima, molti hanno la tendenza ad americanizzare il proprio nome, renderlo esotico, anche se vengono, chessò, da Matera o da Villa S.Giovanni. Forse è più glamour così, e anche più ciovane. Allora, ho pensato, Cal Moiano da Benevento, magari fa figo, no? Cosa ne dici tu, che sei ciovane? "
Il giovane Malegori era visibilmente confuso, così il dott. Moiano rimase a scrutarlo per qualche istante, molto divertito.
"Sei come mia moglie. Tu e lei non capite mai quando scherzo. Che noia." Disse Moiano sorridendo.
"Forse è perché lei non scherza mai, dottore."
"La finisci quella crema bruciata?"
"No, dottore, io non amo la creme broulée, come lei sa molto bene. In più mi si appiccica tutta ai denti e rischio di far saltare il provvisorio che ho qui a destra. Prego, la finisca lei."
"Se proprio insisti…Allora fammi il piacere, torna in ufficio e vedi se quella è arrivata. Ha chiesto di parlarmi, chissà cosa avrà ancora da dire, certamente niente che possa interessarmi. Casomai falla aspettare cinque minuti, offrile un caffè, un bicchier d’acqua. Io arrivo. Non si può mica mandare indietro questa prelibatezza."

43.
“In una cosa quella grandissima testa di cazzo ci aveva preso. E sa qual è?”
Calogero Moiano scosse il capo, in silenzio. La donna riprese a parlare.
“Il pesce pulitore lavora di notte. Il pesce pulitore ama la notte. Quella quiete, quel silenzio, che meraviglia. Proprio così: lei non immagina neanche lontanamente cosa diventi l’agenzia pubblicitaria, di notte. E’ un luogo incantato, è il paese delle meraviglie, per chi quelle meraviglie sa dove cercarle.”
Anche se di quando in quando si concedeva lunghe pause di riflessione, durante le quali aspirava lentamente le sue anacronistiche sigarette al mentolo, la donna sembrava avere voglia di parlare.
E Moiano la lasciò parlare, pur sospettando che non avrebbe rivelato niente di significativo ai fini dell’inchiesta.
“Sa dottore, i creativi sono come dei bambini viziati. Sono capricciosi, egocentrici, prepotenti, e anche disordinati, disorganizzati, presuntuosi.
Partendo dai Francesco M. di questo mondo e arrivando fino all’ultimo sfigato di stagista sbarcato ieri in agenzia, si sentono tutti delle superstar, primedonne piene di sé, boriosi come pavoni. Sono così arroganti da considerarsi persino i padroni delle loro stesse idee. Credono di avere il potere su quelle idee che fuoriescono da quelle testoline da mocciosi, credono di poterne disporre a piacimento. Pensi un po’. Ma non basta. Credono di essere in grado di poter decidere quali sono le buone idee e le cattive, usare il potere di discernimento e di giudizio, e attraverso questo potere pensano di tagliarci fuori, metterci in un angolo.
Che idioti.
E la cosa più idiota di tutte è che credono che al centro di questo loro ridicolo mondo delle favole ci sia il Direttore Creativo, il loro guru, il loro mentore e protettore, quello in grado di capire la potenzialità di un’idea e nutrirla, farla crescere, difenderla contro tutto e tutti, soprattutto contro i cattivi (che siamo noi) e spesso anche contro gli stessi clienti, che sono quelli che alla fine ci mettono i soldi. Se lo immagina questo ridicolo personaggio, il direttore creativo, che delle volte si sente un po’ come Andy Warhol alla sua Factory, e pontifica di pubblicità come se parlasse delle ultime tendenze dell’arte contemporanea? La sto annoiando, dott. Moiano?“

44.
Quello che so, pag. 34:

Quello che so è quello che vedo. Tutti i giorni da questa finestra vedo il mondo scorrere davanti a me.
Era gennaio, credo, di certo faceva un freddo cane, questo lo ricordo bene perché mi stupì molto vedere quel ragazzo in mezzo alla strada con addosso soltanto una camicia di cotone e un paio di jeans tutti zozzi e bucati. Nient'altro. Nemmeno le scarpe. E la prima cosa che ho notato di lui infatti sono stati i piedi. Sopra neri di fango e sotto rossi di freddo.

Non lava i vetri delle macchine, non vende accendini. Neanche importuna nessuno con la classica aggressività da semaforo.
Ciondola col suo sorriso ebete, e basta. La mano appena sollevata a mendicare senza convinzione camminando traballante da un'auto all'altra. Senza aspettare il cenno di rifiuto che tutti gli rivolgono. E sorride con l'aria di non rendersi conto, o di rendersi conto troppo bene.
Così il primo giorno.
Il secondo, uguale.
Il terzo nevica e lui ora ha i piedi bianchi e paonazzi. Bianchi sopra e paonazzi sotto.
Tutto il resto non cambia.
Il quarto giorno comincio a sentirmi a disagio e non capisco perché.

Il quinto giorno mentre lo sto guardando dalla finestra lui si volta come se sentisse il mio sguardo. Alza gli occhi e mi fissa sorridendo. La sua bocca sorride, i suoi occhi no. I suoi occhi sono buchi neri. I suoi occhi sono morti. Occhi da squalo. Le macchine partono sgommando impaurite dal ragazzo muto e sorridente. Lui ora non ciondola più. Lui ora guarda. I suoi occhi sono fissi nei miei. Abbasso precipitosamente le tapparelle della finestra.

mercoledì 3 giugno 2009

Quello che so

Diciassettesima puntata (prego cliccare sul titolo a fine lettura)

41.
Ancora una volta, Calogero Moiano era solo. E non si trovava affatto male in quella situazione. Uomo di poche pretese e senza vizi, una delle poche cose alle quali aveva deciso di non voler rinunciare era l’amore per la musica. Amava la musica in modo totale, incondizionato. E come tutti quelli che amano veramente la musica, amava tutta la musica. Pensava e credeva fermamente che come in tutte le cose, come nel cinema, nella letteratura, nella cucina e nell’architettura (e sospettava che Francesco M. avrebbe potuto dirgli la stessa cosa a proposito della pubblicità) non esistessero generi musicali migliori o peggiori di altri, più o meno degni di nota, più o meno apprezzabili, più o meno seri. Come in tutte le cose, Calogero Moiano pensava che la musica contemplasse unicamente due generi: la buona musica e la cattiva musica.
Esistevano invece gli umori, gli stati d’animo, e la musica che questi umori assecondava, esaltava, o cullava.
Quella notte, osservando la città dall’alto scorrere senza senso apparente, Moiano sentiva il bisogno di ascoltare Carlo Gesualdo, detto anche Gesualdo da Venosa. Prese il CD di Musica sacra per cinque voci nell’esecuzione dell’Oxford Camerata e si mise le cuffie, avvicinandosi alla finestra. Tutte le volte che incontrava Carlo, provava ad immaginarlo affacciato dall’alto delle mura della sua fortezza di Gesualdo, intento ad osservare l’orizzonte che gli si apriva sconfinato, dopo che per ampliarlo aveva fatto abbattere i boschi di querce e pioppi che circondavano il castello. Calogero sentiva Carlo Gesualdo particolarmente vicino, forse anche perché venivano dalla stessa terra. E ogni volta che ascoltava la sua musica, Moiano si scopriva a chiedersi quale fosse la parte del dolore e del rimorso contenuta nel misticismo di queste meravigliose composizioni. Quanto l’espiazione per aver brutalmente trucidato la sua prima moglie e l'amante di lei fosse parte integrante dell’ispirazione musicale di uno dei più grandi compositori italiani del XVI secolo. Le cronache dell’epoca dipingono Gesualdo da Venosa come un uomo tormentato e introverso, profondamente segnato dal suo gesto. Ma Calogero Moiano avrebbe voluto saperne di più, essere là nel castello arroccato insieme a lui, a farsi raccontare dal principe quali fossero i suoi veri sentimenti. Se sentiva veramente di avere imperdonabilmente offeso il suo dio, un altro essere umano, se stesso. Quale fosse il peso di quella colpa. E credeva che questo fosse dovuto ad una convinzione che si stava facendo strada nella sua mente e nel suo cuore in tempi recenti: la convinzione che del rimorso, del senso di colpa, dell’esistenza stessa del concetto di colpa, di peccato, e infine di giusto e sbagliato, di moralmente e socialmente accettabile e inaccettabile, si stesse perdendo traccia.

giovedì 21 maggio 2009

Faccia di Cera

1.
In un vecchio film di fantascienza americano, quel film che alcuni di noi chiamano familiarmente il "baccellone" per il fatto che l'alieno si presenta originariamente appunto come un grosso baccello, c'è una scena che si svolge più o meno così: due uomini e una donna osservano il cadavere di quello che credono essere un uomo. In esso scorgono qualcosa di strano che in un primo momento non riescono a spiegare. All'improvviso, uno dei due uomini capisce:
- Guardate! Guardate il suo viso! E' privo di espressione, privo di rughe, sembra una faccia normalissima eppure allo stesso tempo non ha nulla di umano. Sembra una faccia di cera.



2.
Il piccolo drappello di persone vestite di scuro sosta silenzioso. Aspettano. Due bambini fra loro, un maschio e una femmina, capiscono poco di quello che gli succede intorno, e anche loro tacciono. Alla bambina, più piccola di due anni del bambino, scappa la pipì ma non lo dice. Ma si vede benissimo, per come si muove e saltella e non sta ferma un momento. La bambina viene accompagnata da una zia a fare la pipì. Un'altra zia si avvicina al bambino e prendendolo per mano gli dice:
-Vuoi venire a salutare il tuo papà?
Il bambino vorrebbe tanto dire di no, poi pensa che potrebbe sembrare maleducato, e lui non vuole sembrare maleducato perché è un bravo bambino, quindi non dice di no e non dice di sì ma si lascia semplicemente trascinare da quella mano giù giù fino in fondo alla discesa, dove sono tutti gli altri. Gli sembra che tutti stiano guardando lui. Quando arriva in mezzo agli altri, gli altri si scostano, e lui vede la bara. Non è affatto come se la immaginava, non è una di quelle classiche austere bare di legno scuro con un crocefisso attaccato in cima. E' una bara di metallo, grigia chiara, tutta cromata e lucente come una Cadillac: viene dall'America. Il bambino pensa a come sono più avanti di noi, anche in queste cose. Il bambino spera che sia finita lì, ma non è così. La bara tecnologica ha un optional molto significativo: il coperchio si può sollevare dividendosi in varie parti, e infatti ne viene aperta solo la parte superiore. Ora il bambino viene sollevato anche lui, cosicché possa salutare quello che resta di suo padre. Intorno a lui la gente dice:
-Com'è sereno! Guarda, sembra che stia sorridendo.
Al bambino non sembra che stia sorridendo. Si sente invadere dall'orrore e dalla rabbia, si sente privato per sempre del ricordo di suo padre vivo, e non vuole credere che quello è suo padre. Quella è un'altra cosa, non ditemi che è papà. Chiede:
- Cosa gli hanno fatto?
Gli spiegano che in America, dove sono molto più avanti, si usa così. Per conservarli meglio gli fanno delle iniezioni. E' una specie di imbalsamazione, gli dicono. E' quello che rende la pelle così lucida, come fosse di cera.

Spiaggia Libera

Che meraviglia, pensò Marco guardando la spiaggia deserta davanti a lui. Non riusciva a capire. Certo, era la fine di Marzo. Certo, era un giorno infrasettimanale lontano da ponti e festività. Un giorno normale, anonimo. Ma una fortuna così grande era qualcosa che andava aldilà delle sue più rosee aspettative. Calcolò circa cinquecento metri alla sua sinistra e altrettanti se non di più alla sua destra, e in tutto quell'enorme spazio non c'era alcun essere umano né la minima traccia di esistenza. Il suo cuore era pieno di riconoscenza (anche se non sapeva nei confronti di chi avrebbe dovuto essere riconoscente) e per la prima volta dal giorno in cui lui e sua moglie si erano lasciati, circa tre mesi prima, si abbandonò cautamente all'ottimismo.
Forse è scoppiata la bomba atomica mentre dormivo e sono morti tutti. -pensò- Se è così, sia benedetta la bomba, ora e per tutti i secoli dei secoli, amen.
La sabbia era bianca e pulita, non troppo calda. Si spogliò senza togliersi la maglietta, si sdraiò sull'asciugamano e si mise a leggere il suo libro.
Dopo circa venti minuti sentì delle voci alla sua destra. Sollevò lo sguardo dalla pagina e vide che poco lontane da lui erano apparse due persone, un uomo e una donna. Erano ferme, e si stavano guardando intorno. Poi cominciarono a dirigersi verso di lui. Marco cercò di mantenere la calma, ma sentì che la parte posteriore della sua gamba destra, in corrispondenza del ginocchio, cominciava a sudare. Non era un buon segno. Come se si fossero trovati sulla stipatissima spiaggia di Rimini a mezzogiorno del 15 di Agosto, i nuovi arrivati stesero gli asciugamani a non più di un metro da Marco. Allora Marco notò che possedevano un gigantesco radioregistratore portatile.
Non lo sapete che nel frattempo è stato inventato l'iPod?, pensò Marco. Si spogliarono. Lui aveva un tanga giallo canarino e una pesante catena d'oro al collo. Lei un minuscolo due pezzi di leopardo, ma il pezzo di sopra se lo tolse senza perdere tempo. L'uomo prese una cassetta, sulla cui copertina Marco vide scritto "Mike Francis, greatest hits", la introdusse nel registratore e accese, a volume molto alto.
Ma da che epoca venite? Da dove siete usciti?
Marco era disorientato, non riusciva a capacitarsi che tutto questo stesse capitando proprio a lui. Di carattere timido e indole più che prudente, valutò l'ipotesi di alzarsi e andare dall'altro capo della spiaggia, lontano da quel condensato di orrore. Ma poi capì che non era possibile. In tutta la sua vita non aveva fatto altro che spostarsi. Questa volta no. Così, dopo un pensiero fugace dedicato a quella dannata bomba atomica che ancora una volta non era scoppiata, si rivolse cortesemente, anche se a voce un po' alta per via della musica, ai suoi vicini:
-Scusatemi tanto. Come potete vedere questa spiaggia è molto grande, e per un caso fortunato, più unico che raro a dire il vero, oggi è completamente deserta. A occhio e croce ci saranno circa cinquecento metri liberi alla nostra sinistra, e almeno altrettanti se non di più alla nostra destra. Ora, io non arrivo a dire che dovevate per forza sdraiarvi lontani da qui, anche se ad essere sincero sarebbe stato auspicabile. Viviamo in un paese democratico, come suol dirsi, e voi avete il diritto di sdraiarvi dove vi pare. Siamo su una spiaggia libera. Però anch'io credo di avere qualche diritto, per esempio quello di stare in santa pace, per cui vi chiedo: se volete sentire la musica per favore allontanatevi, o se proprio volete stare qui spegnetela o come minimo di abbassate il volume.
Si congratulò con se stesso per la tranquilità e il tono assolutamente ragionevole ed educato che aveva mantenuto.
Nel frattempo i due, che avevano preso a darsi da fare come se Marco non esistesse, sentendolo parlare si interruppero e lo guardarono come se lo vedessero per la prima volta. L'uomo smise di leccare il seno di lei e fissò Marco negli occhi con aria truce. Quando Marco ebbe finito di parlare l'uomo sbraitò:
-Senti stronzetto, vedi un po' di andare a fare in culo, con quell'aria da checca sifilitica. Noi qui stiamo bene e non spostiamo il culo di un millimetro, ficcatelo in quella testa di cazzo che ti ritrovi. E sentiamo la musica quanto ci pare al volume che ci pare, hai capito? E tu faresti meglio a sgommare, se non ti sta bene, invece di stare qui a guardarci e a sbavare.
-Guardone di merda! concluse la donna, con aria disgustata.
Marco si sentì soffocare. Fu molto rapido, come non era mai stato in vita sua. Senza quasi rendersene conto si alzò, afferrò il radioregistratore e cominciò a correre verso il mare. La spiaggia era piuttosto profonda, così quando arrivò sul bagnasciuga aveva raggiunto una discreta velocità, e il lancio fu decisamente spettacolare. Il radioregistratore fece un bel tuffo in acqua ad una decina di metri di distanza. Alle sue spalle sentì la voce dell'uomo che gridava:
-Figlio di puttana, io t'ammazzo!
Girandosi, vide l'uomo che si avventava su di lui. Era nudo, aveva il cazzo eretto che sballonzolava nella corsa, e in mano aveva un grosso pugnale da sub. Una scena comica.
Istintivamente Marco si gettò di lato e allo stesso tempo assestò un violento calcio nei coglioni dell'altro. Quando si rialzò sentì dolore ad un fianco, e vide che era stato colpito di striscio. Sanguinava, ma non copiosamente. L'altro stava riprendendo fiato, preparandosi ad attaccare di nuovo.
Questa volta non mi colpirà di striscio. Questa volta mi finirà. pensò Marco.
In quel momento si sentì afferrare da dietro. La donna aveva affondato le unghie nelle sue braccia e lo teneva fermo, affinché il suo compagno avesse un bersaglio più facile. L'uomo era in piedi e avanzava verso di lui. Marco vedeva la lama del pugnale correre verso il suo cuore e la sentiva già bruciare nella sua carne. All'ultimo momento ruotò violentemente su se stesso, voltando le spalle all'assalitore. La lama si conficcò nella schiena della donna, all'altezza dei polmoni. Lei emise un gemito, poco più di un soffio, e crollò nella sabbia vomitando sangue. Marco approfittò dello stupore dell'uomo, si lanciò su di lui e conficcò i suoi denti nella mano che teneva il pugnale, facendolo cadere.
Quello che l'uomo lesse nello sguardo di Marco non doveva essere niente di buono perché cominciò a scappare, inciampando sui suoi passi. Marco raccolse con calma il pugnale, lo pulì, raggiunse facilmente l'uomo che arrancava, lo fece cadere con la faccia nella sabbia e si inginocchiò sulla sua schiena. Poi, con molta tranquillità, afferrò l'uomo per i capelli sollevandogli leggermente la testa, quel tanto che bastava per tagliargli la gola da orecchio a orecchio.
Per una durata di tempo indefinibile restò seduto fissando il vuoto, come ipnotizzato. Poi si scosse e si guardò: era coperto di sangue dalla testa ai piedi, sangue suo e sangue non suo, che si stava raggrumando. Aveva caldo e si sentiva sporco. Decise di affrontare il mare di marzo. L'acqua fredda cominciò subito a tonificarlo. Lavò via il sangue con calma e attenzione. Tutt'intorno era tornato il meraviglioso silenzio post-atomico di pochi minuti prima.

martedì 12 maggio 2009

Sigla

Laura uscì di corsa dal palazzone grigio dove era stata sostituita al microfono da Cinzia. Le facevano un po' male le orecchie, più che altro le ronzavano, come ogni volta alla fine del suo turno. Poi: le bruciava la gola, aveva una leggera fitta che le percorreva tutta la schiena e si sentiva le natiche indolenzite. Ma siccome era una persona semplice e ottimista, decise di fare quattro passi nell'aria frizzante dell'alba. Il turno di notte allo 06 3570 era quello che le piaceva di più, anzi aveva una vera passione per il turno di notte, odiato da tutte le altre colleghe. Il fatto era che spesso, nel suo grande letto solitario, sotto la grande trapunta a fiori che le aveva regalato sua madre, Laura soffriva di insonnia, e alla fine, dopo aver guardato l'ennesimo DVD e finito l'ennesimo giallo, si ritrovava a chiedersi perché quel grande letto era sempre così solitario.
Lì in centrale, invece, la notte passava dolce e rilassata. La tensione del giorno si scioglieva lentamente, il traffico si diradava pian piano, le chiamate diventavano più rare e tranquille. Laura amava chiacchierare un po' con i colleghi attraverso la radio, scambiare impressioni e battute superando l'abituale freddezza e impersonalità che i ritmi del giorno imponevano. Di giorno quasi odiava la sua voce, le sembrava di essere capace soltanto di ripetere all'infinito quell'unica parola, "Sigla", "Sigla", "Sigla", nella continua ricerca di qualcuno che all'altro capo del filo si degnasse di rispondere Modena 6 o Genova 15 e la sollevasse un attimo da quell'ansia nella quale ripiombava un secondo dopo. Le sembrava anche una metafora un po' crudele della sua vita, spesa in quell'isterico lanciare domande verso il mondo, domande che ottenevano raramente risposta. La notte invece erano spesso i colleghi che la chiamavano, la cercavano, dimostravano di avere voglia e piacere di scambiare due parole con lei, così, tanto per passare il tempo. E lei li amava tutti e si sentiva meno sola, e le bastava questo per non pensare al suo letto vuoto e ritrovarsi a sorridere.
Così si sentiva quella mattina, leggera e allegra con tutti i suoi acciacchi, e così piacevolmente stanca che era sicura di addormentarsi come un sasso appena si fosse sdraiata sul letto. Prometteva di essere una bella giornata di sole, l'aria stava cambiando lentamente colore, da nero a grigio, da grigio a rosa, mentre la nebbia si alzava. Laura ormai era vicina a casa, e camminava senza fretta e senza difese. Così, quando si trovò improvvisamente davanti quell'uomo che la afferrò e la spinse violentemente nell’ombra di un vicolo, fu talmente sorpresa che rimase completamente senza parole.
E questo, come vedremo, la salvò.
-Se dici una parola sei morta, puttana! sibilò l'uomo nel suo orecchio, e lei provò un brivido di raccapriccio. Era confusa e terrorizzata, ma non solo per quello che le stava accadendo: c'era qualcos'altro che Laura non riusciva a capire. L'uomo tirò fuori dalla tasca un grosso coltello a serramanico e lo aprì, mostrandole la lama affilatissima. Parlò ancora, con voce più calma, reso sicuro nel vedere che Laura seguiva le sue istruzioni e non accennava ad aprire bocca.
-Brava, puttanella, continua così e vedrai che andremo d'accordo, e forse se non fai scherzi porterai a casa la pelle.
Tagliò accuratamente la camicia di Laura, il reggiseno, le strappò la gonna e le tirò via le mutande. Poi la buttò per terra e le allargò le gambe. Laura restò in silenzio mentre le lacrime scendevano dalle sue guance, e da un angolo del suo cervello arrivava l'informazione, ancora incerta nei confini, di quanto fosse fondamentale in quel momento mantenere il silenzio. L'uomo invece era molto loquace e diceva "Fammi godere puttana" o "Quanto sei bella" e grugniva e sospirava pesantemente.
Finalmente, quando l'uomo cominciò a venire dentro di lei, Laura sentì il pensiero, ora pienamente formato, emergere come un fulmine dalle profondità della memoria, volare leggero verso la superficie della mente, per poi imporsi in tutta la sua luminosa chiarezza. E il pensiero le stava comunicando: “Padova 9. Questa è la voce di Padova 9. Non ci sono dubbi.”

martedì 5 maggio 2009

Quello che so

Sedicesima puntata

39.
Come al solito, il vecchio condizionatore non voleva saperne di partire. Come al solito, il dottor Calogero Moiano da Benevento gli assestò un potente calcione in un punto ben preciso, facilmente individuabile perché portava il segno di tutti i precedenti calcioni. Come al solito, il vecchio condizionatore partì sferragliando. Calogero Moiano allentò la cravatta, sollevò la cornetta del telefono e disse:
“Ok, possiamo cominciare.”
Dopo alcuni secondi entrò la donna, scortata dal giovane assistente di Moiano. Era sorridente e rilassata. La prima notte in carcere della sua vita non sembrava averla minimamente impressionata.
Anche se non è da escludere che la signora avrebbe potuto persino gradire, non ci fu bisogno di alcuna tortura per farla parlare. Quello che aveva deciso di raccontare lo raccontò tranquillamente. Quello che doveva rimanere nascosto, non ci sarebbe stata nessuna tortura capace di portarlo alla luce.
Moiano le indicò una sedia.
“Si accomodi. Posso offrirle una caffè?”
“Grazie. Dottor Moiano, prima che lei cominci a farmi le sue domande, posso farne io una a lei?”
“Prego.”
“Quando le avete messe, le nuove telecamere?”
Il dottor Moiano la guardò in silenzio.
“E’ così che mi avete scoperto, no?”
“Non sarei tenuto a risponderle, ma le rispondo. Le abbiamo installate il giorno dopo la morte di Francesco M. Non pensavo che avrebbero potuto esserci utili. Invece...”
“Che stupida a non averci pensato. Mi sentivo così sicura di me stessa perché mi muovevo nel mio ambiente, conoscevo l’esatta ubicazione di tutte le telecamere di controllo. Quello che si dice l’eccesso di sicurezza.”
“Doveva essere maledettamente importante recuperare quel libro, ma soprattutto quello che c’era dentro. Così importante da giustificare qualche rischio. Dopo averci dormito sopra, ora mi vuol dire cosa c’era, nel libro?”
“E’ un libro molto inspiring, come diciamo noi pubblicitari. Un libro che avevo voglia di rileggere, e non trovavo più la mia copia. Così ho pensato di farmelo prestare da Francesco. Tanto a lui non serviva più.”
“Non credo che così faremo tanta strada.”
Calogero Moiano aprì un cassetto della sua scrivania, e tirò fuori il diario di Francesco M. Lo appoggiò davanti alla donna, rivolto verso di lei.
“Io un’idea me la sono fatta. Lo riconosce?”
La donna non rispose. Calogero Moiano aprì il quaderno e lo sfogliò. Poi lo lasciò aperto davanti alla donna.
“Nota qualcosa di strano?”
“Manca una pagina.”
“E non una pagina qualsiasi.”
“No. Sembra proprio mancare l’ultima pagina.”
Ci fu qualche attimo di silenzio. Poi la donna decise che era arrivato il momento di smettere di giocare.
“Non la troverà mai. Si metta il cuore in pace.”
“Ci sono centinaia di sue impronte digitali su questo quaderno, e dappertutto nell’ufficio di Francesco M.”
“Certo. Ma sul corpo? Sul corpo di Francesco avete trovato le mie impronte?”
Calogero Moiano scosse lentamente il capo.
“Perché io Francesco non l’ho toccato. Ammetto che la notte in cui è stato ucciso, dopo che è stato ucciso, io sono andata nel suo ufficio a fare il mio lavoro. A pulire. Ho strappato quella pagina per portarla via, ma quando stavo per uscire dall’ufficio ho sentito dei rumori nel corridoio. Così l’ho nascosta dentro quel libro pensando di recuperarla in un secondo momento.“
“E’ tutto?”
“E’ tutto quello che sono disposta a raccontarle, dottor Moiano.”

40.
Calogero Moiano fissava la chiave senza decidersi a infilarla nella serratura. Gli era diventato ormai insopportabile rientrare a casa. Stava pregando intensamente che sua moglie fosse andata a giocare a bridge con le amiche, al cinema, a teatro, a una delle sue intollerabili feste di beneficenza, a scopare con qualcun altro. Dovunque, basta che non fosse in casa. Finita la preghiera, si decise. La casa era immersa nel buio. Era stato esaudito. Sul tavolo in cucina c’era un foglietto, con su scritto: “Pizza nel congelatore.”
Moiano se ne andò a letto velocemente, temendo che la donna potesse rientrare trovandolo ancora alzato.

domenica 3 maggio 2009

UN GIORNO, DUE RAGAZZE, DUE VECCHI

Sono le nove del mattino, è il giorno che precede la primavera, e il treno è appena partito.
Laura è seduta, un libro nuovo nuovo tra le mani, in un vagone completamente vuoto. I pendolari hanno affollato il treno precedente, e così per Laura è stato facile trovare un vagone deserto dove i pensieri del mattino abbiano spazio sufficiente per vagabondare senza ostacoli.

Sono le nove del mattino, è il giorno che precede la primavera, e Valeria non deve andare al lavoro. Prepara la sua colazione con calma, e si accuccia sul divano con il televisore sintonizzato sul canale numero sette. Oggi, pensa, mentre infila nella tazza un biscotto bianco e nero, potrebbe trascorrere un po’ di tempo con sua nonna.

Osserva le casette rosa che macchiettano i campi scorrere oltre il finestrino, Laura, e immagina le vite degli inquilini che le popolano, cercando di indovinarne il volto, il nome e la professione in base alla forma degli edifici. Il libro, tra le sue mani, è aperto a pagina sette.

Valeria scende le scale, abita al secondo piano di una villetta rosa che spunta come un fungo tra i campi. Al primo vivono sua madre e suo padre, mentre la nonna materna se ne sta solitaria al pian terreno. Valeria stringe tra le mani una scatola di cioccolatini: sua madre gli impedirebbe di regalarli alla nonna, ma questa mattina sua madre non c’è.

“La vuoi una caramella?” dice il vecchio sedendosi proprio di fronte a Laura. Il suo alito puzza di marcio e di alcol. Laura lo osserva frugarsi le tasche della giacca marrone, risponde “No, grazie” ma spera che il vecchio capisca “Mi lasci in pace, la prego”.

“Grazie, ma lo sai che la mamma non vuole!” dice la nonna. Dice proprio “la mamma”, anche se in realtà si tratta di sua figlia. “Un cioccolatino o due non ti manderanno mica all’ospedale” dice Valeria con gli occhi rivolti al cielo. “Oggi non lavori?” domanda la nonna, seduta al tavolo della cucina, scartando il primo cioccolatino.

“Senti” dice il vecchio senza tirare fuori le mani dalle tasche “se mi dici il tuo nome ti do una caramella”. Il taglio che nasconde dietro la barba si inarca ad imitazione di un sorriso. Laura cerca con gli occhi la presenza di qualcun altro tra i sedili, invano: “Le ho detto che non la voglio”.

Valeria e sua nonna sono sedute al tavolo della cucina, una di fronte all’altra. Tra un cioccolatino e l’altro parlano dell’arrivo della primavera, dei peschi che sono già in fiore, e dei prezzi del Conad, sempre più alti. Ogni tanto qualche parola proveniente dal televisore, rimasto acceso in salotto, riesce a farsi strada fino alla cucina, e s’infila nei loro discorsi.

Laura valuta il tempo che manca alla prossima fermata. Proprio nel momento in cui, raccolte le sue forze, è decisa ad alzarsi e infilarsi subito in un altro vagone, il vecchio le afferra un braccio fulmineo: “Dove vai?” le dice con quel taglio che si ritrova al posto di una bocca “Non vorrai mica andartene prima che ti abbia dato la mia caramella!”

A quanto pare sta andando in onda uno di quei programmi orribili, dove le persone mettono in piazza le loro tragedie, vere o presunte. Sembra che una donna stia raccontando il dramma di una violenza subita. Ma Valeria e sua nonna non si lasciano distrarre che per un istante. “Voglio darti una cosa” dice ad un certo punto la nonna, illuminata dalla luce della primavera.

Laura tira, cerca di divincolarsi, ma il vecchio ha più forza di lei. “Vieni qui!” le dice, tirandola a sé. “No!” grida Laura, “Mi lasci!” grida anche, “Mi lasci subito!” grida chiudendo gli occhi.

“Chiudi gli occhi” dice la nonna. Valeria ubbidisce e sente che le viene messo in mano qualcosa di freddo. Quando riapre gli occhi scopre nel suo palmo una fede. “Nonna.”, dice, perché è l’unica parola che le viene in mente. “Me l’aveva regalata il nonno, è stato un matrimonio lungo e sereno. Da oggi in poi la terrai tu”. “Ma nonna!” dice Valeria, di nuovo senza sapere cosa aggiungere.
“Spero che ti regali tanti giorni come questo” dice la nonna. Valeria sente gli occhi che le diventano umidi.

Laura piange, piange e grida aiuto. Grida aiuto e finalmente, con uno strattone, riesce a liberarsi dal vecchio. Scatta come una molla e corre via singhiozzando, mentre il treno rallenta placidamente fino a fermasi. Il vecchio raccoglie il libro e se lo ficca in tasca.

mercoledì 29 aprile 2009

Communication breakdown

Marco e Lorenzo erano imbarazzati. Dopo tutto quel tempo avevano perso l’abituale dimestichezza reciproca.
Marco trovava Lorenzo un po’ stempiato. Lorenzo trovava Marco un po’ appesantito. Rimasero qualche minuto in silenzio, facendo finta di guardare il menu dei cocktails.
Fu Marco a parlare per primo:
-Qui chi ci capisce è bravo.
-Mah, io tanto prendo un Negroni.
-Martini cocktail, per me, disse Marco al cameriere. Così ora non avevano più alibi.
-Quanto tempo è passato? Quattro anni? disse Lorenzo.
-Più di quattro e mezzo, quasi cinque.
-Già...
Ci fu un altro lungo intervallo di silenzio. La conversazione era molto faticosa, e come si dice stentava a decollare. Nessuno dei due d’altra parte sembrava particolarmente interessato a vederla decollare.
-Com'è quella cosa? I veri amici si riconoscono nel momento del bisogno.
Lorenzo fissò Marco negli occhi.
-Forse l’aggettivo non c’è. Non ce n’è bisogno. Comunque sì, è proprio così.
-Perché non mi hai risposto?
-Di che cazzo parli?
-Lo sai benissimo di che cazzo parlo. Io ti ho chiesto aiuto, Lorenzo.
-E io ti ho risposto di sì, ti ho detto che ero a tua disposizione. Non fare il furbo.
-Sei tu che stai facendo il furbo. Ma io mi alzo e me ne vado. Per me possono passare altri cinque anni.
-Anche dieci. Fai un po’ come cazzo ti pare.
Marco, che aveva fatto il gesto di alzarsi, si rimise a sedere. Si piegò sul tavolino sporgendosi verso l’ex amico. La fatica di parlare sottovoce mentre aveva voglia di urlare lo stava rendendo paonazzo. Sputacchiava anche un po’.
-Falla finita! Non mi hai mai risposto, cazzo! Più di un mese e mezzo sono stato ad aspettare la tua cazzo di risposta! Ogni cazzo di giorno aprivo la mail e rimanevo lì come uno stronzo a guardare il niente. Ogni cazzo di giorno per un mese e mezzo ho guardato il telefono per vedere se mi mandavi un cazzo di sms, se c’era una cazzo di chiamata non risposta o un cazzo di messaggio nella segreteria, per cui per favore fammi il cazzo di favore di risparmiarmi almeno questa umiliazione, cazzo!
-Senti Marco, vaffanculo, non parlare a me della tua umiliazione. Io cosa dovrei dire, allora, che mi sono messo a tua disposizione e poi non ho più saputo niente di te? Cos’è, il mio aiuto non ti andava bene, non era sufficiente per te? Cercavi qualcos’altro? Qualcosa di diverso? Qualcosa che ti poteva arrivare dai tuoi nuovi cazzo di amici di Facebook?
Marco fece una strana espressione.
-Dove mi hai risposto?
-Cioè?
-Hai fatto reply alla mia mail, o cosa?
-E chi se lo ricorda…No, mi sembra di averti mandato una mail su Facebook. Ci passavi le giornate, ho pensato che fosse il modo più veloce per risponderti.
Marco si appoggiò allo schienale della sedia. Ora non era più rosso. Ora era pallido.
-Mi ero rotto i coglioni, di Facebook. Improvvisamente mi sembrava tutto così…finto. Ho smesso di andarci. Poi dopo un po’ ho cancellato il mio account.
-Io non ho mai capito cosa ci trovassi, in Facebook. E’ una stronzata.
-Ci sono momenti in cui anche un’imitazione di amicizia è meglio di niente.
-Comunque non mi freghi. Quando ti arriva un messaggio su Facebook non ti arriva anche la notifica sulla mail?
-L’indirizzo mail a cui arrivava la notifica mi dava dei problemi. L'ho cambiato.
-E Myspace, e LinkedIn?
-Mi sono tirato fuori da tutti questi cazzo di social network. Erano diventati una specie di ossessione. Potevi telefonarmi però, Lorenzo. Ho dormito con il telefono sotto il cuscino per più di un mese, prima di buttarlo nel Naviglio Grande.
-Cazzo se ti ho chiamato! Ti avrò chiamato due o trecento volte, ho lasciato messaggi su messaggi. Poi francamente mi sono rotto i coglioni. Ho pensato che se non volevi il mio aiuto non te lo meritavi.
Marco ormai parlava con un filo di voce:
-A quale numero mi hai chiamato?
-Al tuo solito numero, quello dove ti ho chiamato oggi per metterci d’accordo sull’appuntamento.
-Quando mi hanno mandato via quel numero è stato disattivato, ed è rimasto inattivo per un paio di settimane. Poi l’ho riattivato facendo un contratto a mio nome.
-E tu, Marco, perché non mi hai chiamato?
-Ero ferito. Arrabbiato. Ti volevo vedere morto. Come potevo chiamarti dopo che mi avevi trattato in quel modo? Io ti chiedo aiuto in un momento faticoso della mia vita e tu non mi degni neanche di una risposta.
Arrivarono i cocktail. Marco e Lorenzo li bevvero velocemente senza parlare. Poi si alzarono e si diedero la mano. Peccato per gli stuzzichini, che in quel bar erano davvero ottimi.

Chi è chi

“Raccontami tutto. Non ho niente da raccontare. Invece sì, sono sicuro che, se vuoi, qualcosa da raccontare lo trovi. Va bene, è solo che non so da che parte cominciare. Comincia dalla fine: stai ancora bene con me? Questa è la cosa più difficile da dire. Difficile, che stronzata. Non ti ho mica chiesto: mi ami? E neanche la versione meno compromettente: mi vuoi bene? Allora c'è da rispondere: ti voglio (tanto, tantissimo, un sacco di, un mondo di) bene. Ti ho chiesto invece una cosa più piccola, concreta. Sicuro, sicuro, troppo. E per te sarebbe una domanda facile? Cosa vuol dire: stai ancora bene con me? Io non sto bene. Con te o senza di te. Niente furbizia per piacere. Forse è meglio lasciar perdere, fermarci qui. Neanche per idea. E allora lasciami parlare senza fare del sarcasmo gratuito. Non faccio del sarcasmo, solo vorrei che non eludessi il problema. Hai capito benissimo cosa ti ho chiesto. Nemmeno io sto bene. Però voglio sapere: ti faccio ridere, ti faccio godere, ti faccio dormire, ti faccio tristezza, ti faccio pensare? Dipende. No che non dipende. Invece sì, e tu lo sai benissimo. Perché tu sei il primo a mettere il proprio umore in cima a tutto il resto. Può darsi, ma non lo accetto. Ah, non lo accetti? Puoi dispensare gioia o dolore a seconda dei tuoi movimenti peristaltici ma non ne accetti le conseguenze. Non accetti che la vita possa essere governata da una legge così brutale, vero? Ma è proprio così. Ieri mi facevi ridere. Ieri mi facevi godere. Oggi no. Domani chi lo sa? O meglio ancora. Dieci minuti fa mi divertivi. Ora mi annoi. Ma fra dieci minuti? Adesso sei tu che mi annoi. Ne ero sicura. Sono io, ma è difficile ammetterlo. Guarda che non è la prima volta che succede. E' banale. Non ho mai preteso di essere eccezionale. Falso. E anche banale. E anche un po' meschino. Oh no, ancora una volta qui. Ancora una volta alla fine del giro, a rifare il biglietto per un'altra corsa. Ma il biglietto costa sempre più caro. Non fare il melodrammatico. Non ti consolerò per il dolore di avermi lasciato. Solo adesso mi rendo conto di quanto ho bisogno di te. Solo adesso mi rendo conto di quanto ti ho sopravvalutato, ma più che per un mio errore di valutazione, proprio per la tua capacità di fingere. Così bene da ingannare anche te stesso. E questa è l'unica attenuante che riesco a concederti. A concedermi. Non mi lasciare. Non mi seccare. Sei tu che mi lasci, stronzo. Fottiti.”

lunedì 27 aprile 2009

Il tempo ritrovato

Un giorno andai a trovare Anna, verso la fine di giugno. Era stanca ma di buon umore. Aveva già provato tutto, e sembrava sollevata dal fatto di non aver lasciato niente di intentato: i raggi, la chimica, i viaggi della speranza.
Diceva:
-La coscienza ce l'ho a posto. Almeno quella.
In quel periodo leggeva moltissimo e non usciva quasi più. Mi raccontò che aveva avuto per tanti anni nella libreria i sette volumi della Ricerca di Proust, Einaudi Editore, collana Gli Struzzi, la stessa edizione che avevo a casa io, e che non aveva mai avuto il coraggio di affrontarli.
-Dillo a me, quelli mi fissano ogni mattina solo per farmi sentire in colpa.
Ma ora quel coraggio l'aveva trovato, e si era buttata a capofitto in quell'impresa così impegnativa. Fra una chiacchiera e l'altra, quasi casualmente, quel pomeriggio mi disse sorridendo:
-Chissà se ce la farò a finirlo.
Lo disse con leggerezza, come avrei potuto dirlo io, con un riferimento alla mia pigrizia e alla rottura di palle per un libro che non finisce mai.
Non abbiamo mai parlato della morte, né mai pronunciato la parola cancro. Però stranamente non mi sembrava che ci fosse reticenza fra noi. Semplicemente, non era necessario essere brutali. Sulla porta mi disse:
-Abbracciami.
Portava sempre dei maglioni enormi perché aveva sempre freddo. Così prima di quel momento non avevo mai capito quanto fosse dimagrita.
Tre mesi dopo sua sorella mi diede una busta. Dentro c’era un foglio del suo bloc notes.
Lessi:
“Non ci crederai, ma ce l'ho fatta.
Te lo consiglio.
Ricordati di me.
Anna.”

lunedì 20 aprile 2009

Quello che so

Quindicesima puntata

38.
"Lei lo trova offensivo, quel termine? Insultante? Irridente, forse?"
La donna era seduta davanti alla scrivania di Calogero Moiano, proprio di fronte a lui, ma non sembrava stesse parlando con lui, quindi Moiano non si diede pena di rispondere. Lasciò semplicemente che il silenzio facesse il suo lavoro.
La donna espirò, e rimase a guardare affascinata gli anelli di fumo che salivano lentamente verso il soffitto.
Entrò l’assistente di Moiano, come sempre trafelatissimo.
Il dott. Moiano non disse nulla, e sollevò l’indice della mano sinistra verso il giovane, facendogli segno di lasciargli qualche secondo di tempo.
Sorprendentemente, il ragazzo capì e uscì in silenzio dall’ufficio.
"Come l’ha capito, dott. Moiano? Come ci è arrivato?"
"Non sono neanche sicuro di avere capito tutto, a dire la verità. Per esempio, una cosa che ancora non ho capito e perché lei è tornata in quell’ufficio. Perché si è presa questo rischio? Cosa cercava? Cosa c’era in quel libro? E ha trovato quello che cercava?"
"Accidenti quante domande. Riuscirà a trovare tutte le risposte, dott. Moiano?"
La donna sorrise, e per la prima volta guardò Moiano negli occhi, intensamente.
"Una cosa però l’ha capita, non è vero? D’altra parte non è così strano che un essere la cui missione nella vita si esaurisca nel tenere pulito l’acquario sia di sesso femminile, no? Il buon vecchio Francesco era uno stronzo maschilista, in fondo. Non gli piaceva l’idea di una donna che si facesse valere."
"Non ho mai creduto che il pesce pulitore potesse essere Roberto Benati. Per un certo periodo ho creduto invece che potesse essere Antonio U., mi sembrava il profilo giusto…"
La donna rise fragorosamente. Sembrava sinceramente divertita.
"Antonio U.? Poveretto, lui è solo un patetico burattino, un niente assoluto, perfetto per il ruolo che ha assunto."
"E chi è il burattinaio, allora?"
La donna smise di ridere. Il dott. Moiano aveva deciso che era arrivato il momento di provare a capirci qualcosa.
"Non ho più tanta voglia di giocare, signora, ora si fa sul serio."
"Il burattinaio, dice? E chi lo sa chi è il burattinaio? Forse non c’è un burattinaio. Forse ce ne sono tanti. L’unica cosa certa, dott. Moiano, è che niente è come sembra. Tutti questi buffoni che si dannano l’anima e si scannano per una miserabile briciola di pane, che credono di lottare per una fetta di potere, che sarebbero disposti a qualunque cosa pur di avere il loro momento di ridicola gloria, tutti loro si credono burattinai, ma non sono niente, niente di niente."
"E lei?"
"Io? Io sono solo un umile pesce pulitore, faccio il mio lavoro in silenzio, senza dare fastidio a nessuno. Io ascolto, imparo, so stare al mio posto, non insidio nessuno."
"Già, ma poi l’acquario si spopola. E magari così non le rimane più niente da…pulire."
Lo sguardo che la donna gli lanciò mise i brividi a Calogero Moiano. Sotto una sottilissima parvenza di finta umiltà impastata di innuendo sessuale, in quella donna si nascondeva qualcosa di freddo e implacabile che lo spaventava.
"A proposito di pulizie, cos’ha portato via dall’ufficio di Francesco M.? Cosa c’era in quel libro? Prima o poi dovrà dirmelo."
"E se non glielo dico cosa mi farà, dott. Moiano? Mi torturerà? E quali orribili torture ha in mente per me?"

domenica 19 aprile 2009

Le foglie morte

Lui faceva il gradasso ma per scherzo e per amore, lo faceva per lei. E ora noi, tutti gli autunni al morire delle foglie, non possiamo non ricordarlo con quell'aria sfrontata e sicura, finta. Lei amava i francesi e il loro charme, la pronuncia, la romance, la Senna e i colori pastello. Lui un po' goffo con il suo registratore a cassette, uno dei primi in circolazione, si presentò da lei con un braccio nascosto dietro la schiena, ed entrò in casa sorridendo. Lei anche sorrise, non capendo, e disse cosa vuoi, cosa nascondi? Ho un regalo per te, una sorpresa, disse lui emozionato come non si sa cosa.
Lei lo guardava in silenzio, mentre lui armeggiava coi fili e preparava la sorpresa. Lei lo guardava in silenzio e in silenzio lo amava da tanto, inconfessata. Notò le occhiaie profonde e il bianco negli occhi di lui tutto rosso, ma non poteva sapere della sua notte insonne, trascorsa nel delirio e nella fatica della creazione, e alle prese con non irrilevanti problemi tecnici.
Tutto pronto, mettiti comoda, abbassiamo un po' la luce, un pizzico di atmosfera, ma cosa mi vuoi fare? niente niente non ti preoccupare, voglio solo farti sentire una cosa, una cosa che ho fatto per te, e ti prego non ridere troppo ti prego.
Lei si accomodò in fondo al divano, rannicchiata e lontana, e fissò il registratore sul tavolino come fosse in trance, mentre lui premeva il pulsante play. Poi andò a sedersi anche lui, nell'ombra, mentre si sentiva avvampare e non voleva essere visto.
La sua voce uscì dal registratore improvvisa e lei fece un salto sul divano. E la sua voce disse: dedicato a Cristina.
Poi, dopo qualche secondo, iniziò quella musica inconfondibile. Ma ecco la sorpresa: al posto della voce di Yves Montand, o meglio sopra la voce di Yves Montand relegata in sottofondo c'era la voce di lui che cantava per lei. Con il suo francese approssimativo, con la sua intonazione un po' insicura, con il fiato corto nei passaggi più difficili, con due o tre sfondoni nel francese perché lui il francese aveva cominciato a studiarlo per lei, ma non è che lo conoscesse proprio bene.
Quando la canzone finì, rimasero in silenzio. Lei disse non accendere. E quando lui si avvicinò al divano, vide che aveva gli occhi lucidi. Non dissero altro, e per la prima volta si baciarono. Fu un bacio in verità piuttosto umido, circondato di lacrime calde che non si volevano fermare. Quando infine si fermarono lui tornò gradasso, e le disse: ti avevo chiesto di non ridere, ma mi hai preso troppo alla lettera.
E' così che Antonio, 68 anni, e Cristina, 60 anni, si dichiararono un reciproco amore che durava da tutta la vita e che avevano sempre taciuto. E' così che con tanta gioia e un velo di rimpianto per le troppe foglie cadute dietro di loro, si incamminarono insieme verso l'autunno.

sabato 18 aprile 2009

1943 (revisited)


Porto il nome di uno zio partigiano, morto in un campo di concentramento durante l’ultima guerra.
Non l’ho mai conosciuto, e di questa cosa conservo una memoria vaga e sempre più lontana.
Quando morirò, questa cosa semplicemente non esisterà più.

giovedì 16 aprile 2009

Chiamo da fuori

Anche se gli stava telefonando da sotto casa, sentiva che la distanza tra loro era ormai incolmabile. Vide la luce accendersi, poi la voce di lui, assonnata e bassa e così sensuale di quando si svegliava, parlò all'altro capo della linea:
-Sì?
-Ti lascio, Andrea. Anzi, ti ho già lasciato.
-Cos'è, uno scherzo? Dove sei, perché non sei qui vicina a me?
-Non importa dove sono. Sono lontana, in un'altra città.
-Però, ti sento vicinissima…come fossi dietro l’angolo… la interruppe lui.
-Quello che importa è che non voglio più vivere con te. Lo capisci questo?
-No che non lo capisco. Non capisco più niente, mi sembra un incubo. Ma ti pare che ne dobbiamo parlare per telefono? Torna a casa e discutiamone con calma.
-Io non voglio discutere! Volevo solo informarti! La voce di lei era rabbiosa.
-Ma quando l'hai presa questa decisione?
-Ieri pomeriggio. Sono venuta a casa mentre tu non c'eri, ho fatto la valigia e sono andata all'aeroporto, mentì lei.
-Allora quando mi hai chiamato dicendo che stavi fuori a cena e tornavi tardi, eri già partita.
-Partita e arrivata. (Altra bugìa, ma a fin di bene).
-Arrivata dove?
-Ma che cazzo te ne frega, insomma! Stava perdendo la pazienza. "Adesso riattacco", pensò. Ma non lo fece.
-Dai, su, non ti arrabbiare, micina, disse lui con la sua voce più vellutata.
-Senti, non possiamo riprovarci? Non mi vuoi dare un'ultima chance? Ti giuro che farò del mio meglio per non deluderti mai più.
-Vaffanculo. Ti odio!
-Ma cos'avrò fatto mai per meritarmi tutto questo odio? Forse la tattica vittimista poteva dare qualche risultato.
-Più di questo non ti posso dire: riconosco i miei errori, ti chiedo perdono e ti amo infinitamente. Dammi l'ultima possibilità per dimostrartelo.
-No.
-Ti prego ti prego ti prego!
-L'ultima?
-L'ultima.
-E va bene.
-Allora torni?
-Torno, disse lei svogliatamente.
-Quanto ci metti? Un paio d'ore? La voce di lui era completamente cambiata. Così fredda, sicura, distante che se uno non lo conosceva poteva anche pensare che si trattasse di un'altra persona.
-Neanche per idea. Non ho più un soldo e ho dimenticato la carta di credito a casa. Non potrò prendere l'aereo. Mi toccherà tornare in treno, forse, oppure fare l'autostop. Arrivo in serata, più probabilmente domani mattina.
-Non farmi aspettare troppo.
Lui riagganciò senza salutare, e lei vide la luce in camera da letto che si spegneva. "Quel porco si rimette a dormire", pensò.
Lanciò il cellulare oltre la siepe del parco, dentro la fontana dei pesci rossi. Poi dovette trattenersi per non correre a riprenderlo.
Quasi senza volerlo, si rese conto che in fondo l'aveva sempre saputo che non avrebbe avuto il coraggio di lasciarlo, quel porco, e si congratulò con se stessa per avergli raccontato quella piccola bugìa, che le concedeva una giornata di libertà, una giornata tutta sua.

Quello che so

Quattordicesima puntata

35.
E’ notte fonda. La sede dell’agenzia di pubblicità Altoprofilo è deserta, dopo che anche l’ultimo giovane borsista, sottopagato sfruttato e maltrattato, alla fine del suo lavoro estenuante e con gli occhi che gli fanno male per lo sforzo, ha lasciato l’agenzia per tornarsene a casa e buttarsi in branda per un paio d’ore.
E’ questo il momento in cui il pesce pulitore entra in azione, quando il resto del mondo dorme. Attraversa il corridoio silenzioso tenendosi molto vicino alle pareti, perché sa esattamente dove sono situate le telecamere. Passa davanti ai cessi, supera l’angolo e affronta l’ultimo lungo corridoio che conduce al grande ufficio del direttore creativo.
L’arredamento non è cambiato, perché Antonio U. non ha avuto il coraggio di farlo cambiare. “Che lurido codardo”, pensa il pesce pulitore.
“Ma questo torna a mio vantaggio”.
La traccia lasciata dal corpo di Francesco M. è quasi totalmente scomparsa, e comunque nell’oscurità sarebbe impossibile individuarla, ma il pesce pulitore la vede con gli occhi della mente, e volta lo sguardo da un'altra parte.
Gli interessano le cassettiere. Metodicamente le apre una ad una, illuminandone il contenuto con una piccola ma potentissima torcia. Non ha fretta, può cercare con calma. Ogni volta che finisce di rovistare in un cassetto rimette tutto a posto con estrema attenzione, poi passa al successivo. Ha quasi finito di passare in rassegna la prima fila di cassetti quando si blocca, e resta immobile. Poi volta la testa lentamente e guarda con attenzione verso la libreria dalla parte opposta della stanza. O meglio, lo sguardo è diretto là, ma al tempo stesso i suoi occhi sono persi nel nulla. Improvvisamente si alza e si dirige a passo spedito verso la libreria. Da uno degli scaffali comincia a buttare giù tutti i libri, ora con foga impaziente. Ne trova uno, si ferma a guardarlo con il fiato sospeso. Sulla copertina è scritto in grande il titolo del volume: Top Performance.
Il pesce pulitore non riesce a evitare che gli sfugga un sorriso. “Sempre ironico, eh, vecchio stronzo?” Non si dà neanche pena di sfogliare il libro che ha in mano, perché sa che quello che cerca è lì dentro.

36.
Quello che so, pagina 30:
“E’ meglio che io cominci a prepararmi alla morte. Ormai sono sicuro che non manca molto. Per esempio: quando mi uccideranno, perché so che prima o poi mi uccideranno, so come dovrà suonare l’epigrafe perfettamente adeguata al mio personaggio. Eccola: la mia dipartita da questa valle di lacrime si trasfigurerà in un estatico trionfo di candore. Graziosa, no?”

37.
In fondo Francesco M. era un burlone.
Il dott. Moiano se lo immaginava mentre cercava parole pomposamente vacue per continuare, anche dopo la morte, a recitare la parte del pallone gonfiato pieno di sé, il tipo sociale antropologicamente più diffuso nell’ambiente della pubblicità, a quanto pareva.

Chicago Memorial

lunedì 30 marzo 2009

Quello che so

Tredicesima puntata

33.
Ragioniamo.
Questi sono i momenti in cui bisogna ragionare.
Ma non ragioniamo troppo, però. Perché allo stesso tempo bisogna fidarsi delle proprie intuizioni, delle proprie viscere. Di quello che ti raccontano lo stomaco e i suoi crampi.
Il dott. Moiano stava riflettendo sulla stranezza della vita. La sera prima era stato sul punto di alzare bandiera bianca, sepolto dal peso del fallimento. E improvvisamente ora si trovava in uno stato di eccitazione quasi insostenibile. Doveva rimanere calmo, tuttavia. Equilibrato.
La sua lavagna aveva bisogno di una ripulita. Con il cancellino in mano diede l’ultimo sguardo d’insieme ai suoi appunti disordinati dove nessun altro all’infuori di lui sarebbe stato in grado di leggere qualcosa, poi non senza esitazione cancellò tutto.
Quindi prese il gesso e ricominciò a scrivere:
La testa dice Roberto Benati (Prima viene a dirmi che non lo ha ucciso lui, poi si appende ad un albero = quasi una confessione). Peccato che la pancia dica: Scordatelo!
Riga successiva:
La pancia dice attaccati come una cozza (per rimanere dentro la metafora ittica) a quell’Antonio U. E’ lui il pesce pulitore, e il pesce pulitore è la chiave di questa storia.
E anche se non è lui il pesce pulitore, probabilmente lui sa chi è. O come minimo ha qualche sospetto.
Riga successiva:
Cosa voleva dire con esattezza Francesco M. raccontando la storia del pesce pulitore? Voleva dirci qualcosa del suo nemico? Portarci sulle tracce di colui che progettava di prendere il suo posto e a tale scopo poteva avere messo in atto il complotto che lo avrebbe infine condotto alla morte?
Riga successiva:
Torna al diario. Forse la risposta è nel diario.

34.
La pagina 28 di "Quello che so" è quasi completamente bianca, con l’unica eccezione di una frase che campeggia solitaria proprio al centro. E’ scritta molto piccola, diciamo un corpo 10, galleggia nel vuoto immacolato della pagina, e quindi l’occhio ne è irresistibilmente attratto, fatalmente conquistato, con buona pace di chi ha sempre sostenuto nei secoli dei secoli che per farsi ascoltare bisogna urlare. Per farti ascoltare devi dire cose interessanti, anche sussurrando.

“Il pesce pulitore non ha sesso.”

Il dott. Moiano osserva questa frase come fosse in trance.

giovedì 26 marzo 2009

Quello che so

(dodicesima puntata)


32.
“Signor U., perché mi ha chiesto questo incontro?”
Antonio U. era molto agitato, e quando era agitato sudava sempre copiosamente. Uno spettacolo disgustoso, pensò il dott. Moiano.
Antonio U. si trovava nel suo ufficio da più di mezz’ora e lui non aveva ancora capito che cosa volesse.
“Lei lo sa, vostro onore…”
“Non sono un “vostro onore”, la prego.”
“Come devo chiamarla, allora?” Piagnucolò Antonio U.
“Non è necessario che mi chiami, venga al punto per cortesia.”
Calogero Moiano si stava innervosendo. In più, la stanza cominciava pesantemente a puzzare di ascelle sudate.
“Sì ma così mi rende ancora più nervoso di quello che sono…”
(Perlamordiddìo, pensò Moiano, siamo già al limite. Ancora un po’ di nervosismo e ci servirà il salvagente).
“Le ripeto che è stato lei a chiedere questo incontro. Se non ha niente da dirmi vuol dire che stiamo perdendo tempo tutti e due.”
“Va bene, va bene… lei lo sa che da qualche tempo sono diventato il direttore creativo della Altoprofilo, vero?”
“Già, loro non hanno perso tempo.”
Antonio U. decise di non cogliere l’ironia della notazione, e proseguì come se Calogero Moiano non avesse parlato.
“Io ho cercato di farmi rispettare, di far capire fin da subito a tutti chi era il più tosto. Sa, in certi ambienti bisogna fare così, se non si vuole essere divorati.”
Il dott. Moiano continuava ad annuire, ma non stava realmente ascoltando. La solita palla che sono gli altri a volermi così, io in realtà sono un bravo ragazzo, tutta colpa della società. Questa roba non era del minimo interesse, per lui.
“Lei lo sa come mi chiamano, nell’ambiente…sì, insomma, il soprannome che mi hanno dato.”
Come no? Il Giuda. Carino, in fondo. Anche dotato di una sua grandezza tragica. Te lo meriti, omuncolo puzzone?
“No, non lo so, me lo dica lei.”
“Una cosa infamante, mi chiamano Il Giuda. A me, che non ho mai tradito nessuno in vita mia, che sono sempre stato leale con tutti, ricevendone in cambio innumerevoli pugnalate alle spalle…”
“Le dispiacerebbe arrivare al punto?”
“Beh, il punto è che quello è il mio soprannome “ufficiale”, diciamo così, ma poi ce n’è una serie anche di più segreti e nascosti…sembra che lo sport ufficiale qui a Milano sia la gara a chi trova il soprannome più spregevole per chiunque altro, in particolar modo per i professionisti che hanno avuto sempre come loro unico scopo quello di svolgere onestamente il loro lavoro…”
A questo punto il dott. Moiano si alzò in piedi. Aveva deciso che quell’incontro era finito. Ma Antonio U. continuò a parlare, ora con molta foga.
“…Uno dei più grandi inventori di soprannomi lo sa chi era? Proprio Francesco. Ne sfornava in continuazione, e ce n’era per tutti. In questo era imbattibile…
Gli occhi di Antonio U. si muovevano veloci per la stanza, senza rimanere fissi in alcun luogo per più di un istante. Accompagnò la pausa con un sospirò, poi continuò.
“Per esempio, recentemente ho scoperto che ne aveva inventato uno nuovo nuovo, da quando aveva avuto problemi con il suo acquario…Ma sono sicuro che questo non era stato pensato per me…perché mi guarda in quel modo?”
Il magistrato, che aveva già indossato il cappotto, se lo tolse rapidamente e lo riappese all’attaccapanni. Ora guardava Antonio U. con interesse, cercando vanamente di cogliere il suo sguardo.
“Continui, la prego.”
“Lei la sa la storia del Pesce Pulitore?”
Calogero Moiano decise di stare al gioco.
“No, non la so, me la racconti lei.”
“Insomma, sembra che ci sia un pesce, chiamato il Pesce Pulitore appunto, che inizialmente pulisce le pareti dell’acquario con delle specie di ventose che ha sulla pancia, e che poi gradualmente si trasforma in una specie di…cannibale, cibandosi di tutti gli altri pesci dell’acquario, finché non rimane da solo. Insomma, pare che Francesco negli ultimi tempi usasse spesso questo appellativo infamante per definire qualcuno.”
Infamante ma più pertinente di Giuda, direi. Pensò Moiano.
“Perché crede che non fosse rivolto a lei, anzi ne è sicuro? E perché mi sta raccontando tutto questo?”
“E’ strano che mi faccia questa domanda…perché io lo so di non essere il Pesce Pulitore, ma qualcuno potrebbe averle raccontato qualcosa di diverso. L’altro giorno per esempio un giovane creativo in procinto di lasciare l’agenzia, un certo Massimo Serafini, mi ha detto precisamente questa frase: ”Ora finalmente capisco chi era il Pesce Pulitore.”
“Secondo lei l’ha immaginato da solo conoscendola, diciamo così, o può averlo sentito dire da Francesco M.?”
Antonio U. per la prima volta fissò i suoi occhi in quelli di Calogero Moiano.
“Da Francesco non può averlo sentito dire. Per il semplice motivo che il Pesce Pulitore non sono io.”
Il magistrato rimase in silenzio, continuando a chiedersi il motivo per il quale quel tizio gli avesse raccontato questa cosa proprio adesso. Avrà letto il diario di Francesco M.?
“Perché è venuto qui, signor U.?”
Antonio U. sfidava lo sguardo del magistrato, e sembrava aver completamente ripreso il controllo. Alzò le spalle.
“Niente. Volevo solo dirle di non dare credito a tutto quello che le dicono. E’ un ambiente di vipere, altro che Pesce Pulitore. Io non ho mai tramato contro Francesco. Io non l’ho ucciso. Gli volevo bene.”
“Grazie di essere venuto. Arrivederci.”

lunedì 23 marzo 2009

Quello che so

(Tragicommedia ambientata nel magico mondo della pubblicità)
Undicesima puntata


30.
Pendeva dal ramo del platano più grande in cima alla collina. Aveva scelto quel posto perché era un posto che lo aveva sempre messo di buonumore, una volta. A pochi metri dall’albero c’era la casa. La loro casa, il loro rifugio, la loro via di fuga. Ricostruita solo a metà. Loro non avevano fatto in tempo a vederla finita, e non l’avrebbe vista finita neanche lui.
Roberto Benati aveva finalmente elaborato il proprio lutto. Roberto Benati si era liberato di tutti i suoi bagagli.

31.
Troppi moventi e nessuna spiegazione. Nessun senso. Nemmeno la lettura del diario di Francesco M. lo stava aiutando ad avvicinarsi alla soluzione del caso. Lo stava aiutando a capire quell’uomo che inizialmente aveva disprezzato, e forse questa era una parte dell’avvicinamento alla verità. Francesco M. sembrava capire qualcosa della sua vita che nessun altro sospettava. Ma nel suo diario sollevava più domande di quante risposte riuscisse a dare, o avesse voglia di dare. Il dottor Calogero Moiano prese una penna, un foglio di carta e una sigaretta. Ordinò un aperitivo e provò a scrivere un elenco di domande senza risposta. Sapeva che sarebbe stato probabilmente molto frustrante, ma ci provò lo stesso.
1. A cosa voleva provare a rimediare? E cosa voleva dire “Lo so io, vedrai”, la frase detta a Roberto Benati?
2. Chi è il pesce pulitore?
3. Chi sono quelli che hanno rubato il sogno di Francesco M? Chi sono quelli che devono pagare?
4. E a che tipo di pagamento si riferisce? In denaro, o un risarcimento morale? Forse vendetta?
5. …
Il telefono cellulare del dottor Moiano squillò, facendolo come al solito sussultare. Odiava quell’affare, anche se non poteva ormai farne a meno. Sul display c’era il numero dell’ufficio, e lui rispose in modo brusco:
“Spero che sia qualcosa di urgente, avevo detto di non disturbarmi.”
“E’ per via di quel signore che ha incontrato stamattina, dottore. Roberto Benati, se lo ricorda.”
“Certo che me lo ricordo, e allora?” Sapeva già quello che stavano per dirgli, e aveva già cominciato a darsi del coglione.
“E’ morto, dottore.”
“Come?”
“Impiccato. L’hanno trovato appeso a un albero su un terreno di sua proprietà nel territorio del comune di Nibbiano, in provincia di Piacenza. Sembrerebbe proprio un suicidio, dottore.”
“Ho capito. Ci vediamo in ufficio tra poco.”
Camminando verso il tribunale si sentiva sopra le spalle almeno dieci anni di più, e vedendolo camminare improvvisamente così curvo quei dieci anni li avreste visti anche voi. Il suo cervello gli inviava continuamente lo stesso pensiero, come in una loop abbandonata: ‘Tu lo sapevi, testa di cazzo. Perché non hai almeno provato a fermarlo? Tu lo sapevi, testa di cazzo. Perché non hai almeno provato a fermarlo? Tu lo sapevi, testa di cazzo. Perché non hai almeno provato a fermarlo? Tu lo sapevi, testa di cazzo. Perché non hai almeno provato a fermarlo?’

venerdì 20 marzo 2009

Maramao (perché sei morto)

1.
Ora so perché continuavano ad andare là puntualmente tutte le domeniche come avevano sempre fatto.
Prima ci andavano con due figli, poi ci andavano con un figlio solo. E questa era l'unica differenza.
Per il resto la ritualità della passeggiata al parco era rispettata fin nei minimi particolari.
Esternamente, quindi, niente era cambiato, ma è meglio non guardare dentro di loro, perché sarebbe troppo straziante scoprire la montagna di dolore seppellita sotto la consuetudine.
Da quella mattina di due anni prima vivevano come in una specie di trance, un sonno ad occhi aperti riempito di obblighi, compiti e doveri rigidamente scadenzati che non lasciavano il minimo spazio al silenzio, al pensiero, e soprattutto al ricordo.
Quella specie di sonnolento torpore iperattivo in cui erano volontariamente scivolati era rotto violentemente di quando in quando dal loro incolpevole figlio più piccolo (il loro unico figlio) che con la crudele innocenza dei bambini si fermava a volte nel bel mezzo di una partita a pallone con il papà, della lettura di un libro, della visione di una videocassetta di Winnie the Pooh, e con un'espressione un po' triste sotto la zazzera bionda chiedeva: "Quando torna Alberto?"
Allora era difficile non scoppiare a piangere, ma era obbligatorio continuare a sopravvivere per lui, per quello che restava, dopo tutto. Gli avevano detto, due anni prima, che Alberto era partito per un lungo viaggio, sperando che almeno nel ricordo del piccolo Pietro la presenza di Alberto illanguidisse piano piano nel tempo, come non avrebbe mai potuto accadere per loro.
Ma non avevano fatto i conti con il carattere sensibile e profondo di quella piccola persona e con la passione e la complicità che avevano fatto già in tempo a cementarsi fra i due fratellini. Una complicità che Pietro non avrebbe mai più ritrovato da nessun'altra parte.

2.
Due anni prima, giorno più giorno meno, era domenica. In questa città triste, puzzolente e anonima dove viviamo, capita ogni tanto una giornata di sole terso, di luce trasparente che ci stupisce e quasi ci spaventa.
Loro non erano spaventati però quella mattina andando al parco con i loro due figli pestiferi, Alberto di 4 anni e Pietro di 2. Era la classica giornata in cui sarebbe stato assolutamente impossibile tenerli a casa.
Il parco era pieno di gente, come non accadeva spesso durante l'inverno, e questa fu una delle cose fatali. Alberto era intraprendente, Alberto era estroverso, Alberto era socievole e un po' ribelle. Alberto faceva prevedere e sognare per lui un futuro pieno di sole e di conquiste. Alberto era la luce dei loro occhi, e il più grande eroe del suo fratellino.
Pietro, più timido, emotivo e sensibile, viveva già da qualche tempo l'intenso dolore della separazione, della perdita. Lo viveva ogni mattina quando Alberto usciva di casa col papà per andare all'asilo, mentre lui restava a casa con la mamma. Era straziante vederlo così irrimediabilmente disperato chiamare fra le lacrime il nome di Alberto, ed era consolante riuscire a consolarlo e vederlo affrontare ogni giorno la sua mattinata senza Alberto. Chissà se si consolerà mai di quest'ultima definitiva separazione.
Alberto faceva amicizia facilmente, e forse il solo motivo per il quale oggi piangiamo un solo lutto è che quel giorno, per Pietro, la sottana della mamma fu più forte dell'idolatria nei confronti del fratello.
Come sempre accade, fu questione di un attimo. E' sempre in fondo questione di un attimo: l'attimo di disattenzione in cui finisci sotto una macchina o fuori strada, l'attimo in cui quel vaso cade e tu ci passi proprio sotto. La distrazione, o la fatalità, non durano mai più di un attimo, e per tutto il resto della tua vita sei condannato a riviverlo senza fine, quell'attimo, a rivivere la morte infinite volte, ogni volta invocando che arrivi la morte.
Un attimo prima Alberto era lì, a capo di un gruppetto di cinque o sei bambini che giocavano ai pirati con le spade di plastica, poco oltre il baracchino del cantastorie che snocciolava le sue nenie tristi sempre uguali. Sarà stato a non più di quindici metri dalla sua mamma. Si sorrisero. Papà era andato a comprare il giornale. Pietro mangiava il gelato impiastrandosi tutto di cioccolato. La mamma si chinò su di lui per pulirgli un po' il maglione, poi gli passò il fazzoletto di carta sulla bocca e sulle mani. Ecco fatto.
Quando rialzò gli occhi e guardò in direzione del gruppetto di bambini, Alberto non c'era più, e non ci sarebbe stato mai più.

3.
Hanno cercato di spiegarmelo, quello che si prova. Hanno cercato di descrivere la qualità e le dimensioni di quel vuoto che non si può descrivere. Un vuoto e una perdita resi infiniti e inconsolabili dal senso di colpa, dal non riuscire a farsene una ragione, ad assolversi.
Hanno cercato, ma credo che non riuscirò mai a capirlo fino in fondo, a sentire la perdita di un figlio. Credo che possa sentirlo solo chi perde un figlio, e credo che questo sia uno dei motivi principali per cui non ho figli.
Se non ci fosse stato Pietro non sarebbero sopravvissuti nemmeno loro, e invece sopravvissero. Sopravvissero alla prima disperazione, alle ricerche infruttuose, all'affievolirsi delle speranze, all'idea che non lo avrebbero mai più rivisto vivo, e infine all'idea che non lo avrebbero rivisto più neanche morto.
In sogno, questo sì, lo rivedevano spesso, quasi ogni notte, e quasi ogni mattina si svegliavano con gli occhi pieni di lacrime e si raccontavano reciprocamente i loro sogni. Cercavano febbrilmente il dolore, avevano bisogno di soffrire per sentire il loro bambino un po'più vicino, perché fosse in qualche modo presente.
Forse è per questo stesso motivo (ora comincio a capire) che continuavano ad andare in quel parco con agghiacciate regolarità. Strano a dirsi, non avevano sentito il bisogno di cambiare. Io avrei cambiato parco, città, stato, continente, pianeta. Loro invece avevano circoscritto sempre di più la zona del parco in cui si fermavano, a costo di costringere lo scalpitante Pietro in pochi metri quadrati con suo grande scontento.
Non sapevano perché, non si erano mai parlati in proposito, e non avrebbero saputo spiegarlo, ma si sentivano attratti da quel luogo, quasi come se lì dove era scomparso aleggiasse ancora in qualche modo la presenza di Alberto.
Naturalmente non se lo sarebbero mai confessato, non volevano finire in manicomio, ma segretamente tutti e due sentivano Alberto lì in quel posto esatto, solo lì in quei cento metri quadrati e non un centimetro più in là.
Ma non solo. Questo è ancora più difficile spiegarlo, ma se lui o lei avessero potuto articolare in parole quell'orrendo peso che artigliava il loro cuore ogni domenica mattina, avrebbero detto che in quel luogo, e solo in quel luogo al mondo, sentivano Alberto soffrire, piangere, chiamare disperatamente la mamma.

4.
Lui aveva provato a sentirsi madre, e a provare il distacco di un pezzo della sua carne, ma nemmeno questo gli era concesso. Così gli restava solo il senso di colpa, la domanda senza risposta che gli folgorava la mente ogni mattina alzandosi dal letto: perché sono andato a comprare il giornale proprio in quel momento?
Da allora non aveva mai più letto una parola scritta su un pezzo di carta, lui che era stato fino a quella mattina di due anni prima un avido lettore di qualunque cosa gli capitasse sott'occhio.

5.
La polizia non aveva saputo cosa dire. Non avevano trovato tracce, indizi, scie di alcun genere. Non c'erano sospetti né indiziati né testimoni. Movente, manco a parlarne. Naturalmente le prime ricerche si erano concentrate nei diversi campi nomadi della periferia, ma senza alcun risultato. D'altra parte nessuno aveva visto nomadi o altri personaggi sospetti aggirarsi nella zona all'ora della sparizione. Il parco, ironicamente, era considerato una zona sicura. Tutto il possibile era stato tentato, tutto inutilmente.
Il bel volto aperto e sorridente di Alberto aveva fatto capolino per un certo periodo di tempo sui manifesti nei dintorni del parco, e anche sulle buste di latte della centrale, con il solo risultato di stringere ulteriormente il cuore di quei due poveri genitori. Poi era tutto finito, intendo tutta la mobilitazione del lutto intorno a loro, e loro erano tornati a vagare nella loro mezza vita senza sole.
E come due rabdomanti pazzi ogni domenica tornavano là senza sapere perché, e ogni domenica restavano sempre più a lungo, e ogni domenica i loro movimenti si facevano sempre più lenti e il loro raggio d'azione più limitato. Infine avevano deciso che era una inutile sofferenza per Pietro portarlo al parco e mummificarlo lì per delle ore, così la domenica mattina lo affidavano ad una baby sitter che lo portava in un'altra zona del parco, e loro potevano liberamente varcare la soglia del loro particolarissimo inferno, sedersi su di una panchina, e rimanere per ore assolutamente immobili senza una parola mentre il sole si alzava per poi tornare ad abbassarsi, la vita scorreva intorno a loro, il parco si riempiva di voci colori e carrozzine e poi tornava a svuotarsi.

6.
L'unica eco del mondo esterno, ma remotissima,come se provenisse dal fondo di un mare profondo, era la monotona litania del cantastorie, che si ripeteva negli anni sempre uguale a se stessa. Il repertorio del vecchietto era limitatissimo: tre quattro canzoni al massimo, ripetute ossessivamente. Ma il suo vero cavallo di battaglia era Maramao perché sei morto, e nella versione del vecchio cantastorie la canzonetta bambinesca acquistava una mellifua e ipnotica mollezza. Data l'esiguità del repertorio, a loro che restavano per ore semisvenuti sulle panchine poteva capitare anche di ascoltarla una trentina di volte ogni domenica, questa canzone. E fu sentendo il cantastorie cantare per l'ennesima volta Maramao perché sei morto che una mattina accadde.
Si svegliarono insieme dal loro trance, insieme cominciarono a guardare il cantastorie per la prima volta, e non solo ad ascoltarlo. Insieme videro la buffa scimmietta di peluche appesa per il collo ad un trespolo e mossa dalla sorridente vecchietta al ritmo delle canzoni cantate dal marito. Insieme osservarono il rozzo teatrino in cui si muovevano quatto soldatini di legno, anch'essi al ritmo di Maramao perché sei morto.
Insieme, senza aprire bocca, si comunicarono l'un l'altro quella strana voglia che era arrivata improvvisa, nel medesimo istante, e aveva bussato imperiosamente al cuore di tutti e due, senza lasciargli la minima possibilità di scelta.

7.
Quando ormai il silenzio si era impadronito del parco, quando le voci dei bimbi si erano dileguate per rifugiarsi al caldo delle loro case ancora felici, quando gli ultimi passanti infreddoliti si affrettavano verso le uscite, il cantastorie cominciò a smontare tutto il suo apparato scenografico, aiutato dalla sua fedele compagna. Con infinito amore e infinita cura smontarono il trespolo con la scimmietta, il teatrino con i soldatini, che vennero riposti ad uno ad uno in robuste custodie. Un'onda di tenerezza riscaldò per un istante i due intirizziti seduti sulla panchina nel vedere questa scena. Ma la strana voglia in loro era più forte che mai.
Restarono in attesa seduti nell'ombra fino a quando i due vecchietti ebbero finito di raccogliere tutto il loro armamentario e lentamente cominciarono a dirigersi verso l'uscita. Allora si alzarono anche loro, e come due bimbi paurosi si presero per mano, un gesto che non facevano più da tempo. Il freddo che sentivano era più gelido o profondo di quello che li circondava. Se avessero potuto scegliere, in quel momento, sono sicuro che avrebbero voluto entrare in un lettone insieme al piccolo Pietro, tirare su la coperta fin sopra la testa e tenersi stretti per scacciare il freddo invincibile. Ma non potevano scegliere, e cominciarono a camminare seguendo discretamente a debita distanza i due vecchietti.
L'Apecar si avviò baldanzosamente verso la grande periferia della città, percorrendo strade viali e piazze per loro assolutamente sconosciuti. Più andavano avanti, e più la loro sicurezza veniva meno. Ognuno per conto suo, in perfetto silenzio, cominciarono a chiedersi cosa stavano facendo, a dubitare. Ma ogni volta che stavano per tornare indietro, là davanti riappariva l'Apecar che loro vedevano circondato da un'aura di luce rossastra, e la voglia ritornava ad affacciarsi.

8.
La casa era appartata e silenziosa. Sorprendente, per certi aspetti. Ti saresti aspettato di vedere arrivare i due vecchietti in uno di quei condomini sterminati della periferia, non in una villetta unifamiliare all’estremità di un viale alberato. Il sole era ormai tramontato da tempo ma i lampioni della via non erano stati ancora accesi. Così loro non vedevano perfettamente, anche perché si erano fermati ad una certa distanza dall’Apecar parcheggiato nel vialetto. Gli sembrò di vedere i due vecchietti caricarsi sulle spalle tutto il loro apparato scenografico e sparire sotto la casa, in quello che immaginarono essere un ripostiglio, una cantina. Rimasero in attesa per una buona mezz’ora ma non li videro riemergere, quindi immaginarono che la cantina avesse una scala interna che portava direttamente in casa . Per prudenza attesero ancora diversi minuti, poi lui la guardò negli occhi e ci vide dipinta la sua stessa muta apprensione. Sperando che all’ultimo momento lei avesse cambiato idea le chiese:
-Andiamo?
Ma purtroppo lei rispose semplicemente:
-Andiamo.
Le loro ginocchia scrocchiarono rumorosamente quando si tirarono su da dietro il cespuglio per incamminarsi verso la casa. Simultaneamente portarono l’indice alla bocca per fare shhh! e sorrisero come due ragazzi, come facevano da ragazzi nella loro vita precedente. So di questo particolare perché lei me lo ha raccontato centinaia di volte, e ancora oggi quando ogni domenica vado a trovarla lei mi racconta questo insignificante dettaglio. Chissà che significato ha per lei.
Il resto del racconto invece ha un significato ben preciso. Dice che si avvicinarono pianpiano alla casa come due ladri, spie, agenti segreti. Dice che la porta d’accesso alla cantina aveva un lucchetto pesante e solido. Mentre lui tornava alla macchina per cercare qualcosa con cui rompere il lucchetto lei prese a battere i denti dal freddo, dice. Il momentaneo calore di quel sorriso complice si era già dissolto. La luce della camera da letto si accese d’improvviso, e per un attimo lui si trovò come nudo illuminato dal fascio che proveniva dalla finestra. Istintivamente si buttò di lato e nella caduta si sbucciò la pelle sul gomito (destro). Nel racconto che mi ha fatto la prima volta (e che mi ripete ogni volta sempre identico) si perde e si dilunga in una miriade di particolari tipo gomiti sbucciati, gambe che scrocchiano, lucchetti arcigni, finestre illuminate. Come se non volesse arrivare alla fine del racconto, come se disseminasse il percorso di subdoli chiodi . Là in fondo, però, c’è sempre un’unica porta.
Dice che lo schiocco sordo del lucchetto rotto colpì le loro orecchie come uno sparo, e dalle orecchie penetrò nella testa e lungo il collo e il petto fino al cuore. Che non riuscivano più a far arrivare l’aria nei polmoni, dice. Si avventurarono così nella cantina come in apnea.

9.
In un primo momento quel che videro li rassicurò. Così dopo, quando capirono, fu infinitamente peggio. Non si fidarono ad accendere la luce così perlustrarono la cantina al debole chiarore della torcia elettrica mezza scassata che avevano buttato in macchina. Sembrava di essere stati catapultati nel film Pinocchio, mi dice sempre. Nella bottega di Geppetto, per l’esattezza. I burattini di legno destinati a diventare soldatini nel piccolo teatro del cantastorie erano appoggiati alla rinfusa sul bancone, alcuni finiti e pronti per essere pitturati e vestiti, altri senza un braccio, una gamba, la testa…

10.
Quella sera papà e mamma non tornarono a casa, e per tanti anni non li rividi più. La zia cominciò a preoccuparsi , poi cominciò a fare telefonate su telefonate, poi cominciò a piangere e io non capivo un cavolo di quello che stava succedendo. Andai a vivere con gli zii e nessuno mi disse niente fino a quando ebbi compiuto 18 anni, e anche allora furono molto reticenti.
La fine della storia, il destino di mio fratello Alberto e della mia famiglia l’ho saputo solo quando ho rivisto mia madre ormai vecchia nella clinica (una volta li chiamavano manicomi, poi li hanno chiusi)dov’è rinchiusa da allora. Entrando nella sua camera la trovai voltata verso la finestra. Non mi riconobbe, ma devo dire che questo di per sé non sarebbe sintomo sufficiente di labilità mentale, dal momento che anch’io faticai non poco a riconoscere lei. Non rispose al mio abbraccio né alle mie domande, così mi sedetti e rimasi in silenzio. Come mi avevano preannunciato, di lì a poco lei cominciò a parlare, sempre rivolta alla finestra. Faceva sempre così da anni, giorno dopo giorno, mi avevano detto. Ripeteva sempre la stessa storia, sempre uguale dalla prima all’ultima parola. Poi faceva una pausa di un’ora, e quindi ricominciava da capo. Incessantemente, spietatamente. La bellissima voce che mi aveva cullato nelle notti faticose dei miei primi giorni quella sì che la riconobbi al volo. Era rimasta intatta,miracolosamente dolce e serena come una volta. La storia cominciava così:
-So che è difficile crederlo, ma questa è la vicenda vera capitata proprio a me e alla mia disgraziata famiglia…
Potevo alzarmi e andarmene, quando ormai era chiaro che in fondo a quel tunnel non ci sarebbe stata luce, ma solo una tenebra ancora più fitta e profonda. Potevo farlo, lei non se ne sarebbe accorta e io sarei rimasto con il ricordo di Alberto che mi derivava dalle foto che mi aveva dato la zia anni fa. Potevo, ma non potei. Ero diventato di piombo, e rimasi appiccicato alla sedia mentre lei finiva di raccontare:
-Non so chi se ne è accorto prima, ma comunque sarà stata una frazione di secondo. Il mio cervello l’aveva già capito mentre il mio cuore rifiutava di accettarlo. Nell’istante preciso in cui ho capito che quelli non erano burattini di legno ma burattini di carne seppi anche tutto quello che era successo ad Alberto. Capii perché eravamo così intensamente attratti da quel posto, quell’angolo di parco, il cantastorie-orco che cantava Maramao perché sei morto, il suo sinistro teatro di soldatini, quel soldatino in particolare, mio figlio, il mio bambino, mio dio. Nello stesso istante deve averlo capito anche mio marito, perché ha sbarrato gli occhi ed è caduto per terra senza dire niente. Siccome era piuttosto vicino al muro si è appoggiato con la schiena ed è rimasto seduto così, con gli occhi aperti, ma con la testa tutta spostata in avanti. Sembrava quasi che si rimirasse il pisello ma non era vero naturalmente. Guardandomi intorno alla luce della torcia scoprii diversi pezzi di corpi di bambini, mi sembravano strani e non capivo perché, finché non mi resi conto che erano più piccoli del normale,miniaturizzati. Già, pensai, devono entrare nel teatrino in veste di piccoli soldati. Trovai fra tanti il mio Alberto in miniatura e lo presi tra le braccia. Odorava di vernice fresca. Lo baciai e rimasi così per un po’. Non so se ho pianto, non credo. La prego di credermi, Commissario, è tutto vero. So che è difficile crederlo ma è tutto vero.
Lei restò in silenzio, dopo aver finito di recitare tutta la storia con voce piatta e cantilenante. Io restai seduto incapace di qualunque movimento per alcuni minuti. Pensavo che sarei morto lì,fulminato come mio padre, invece mi alzai e me ne andai dopo averla abbracciata. Per dovere di completezza devo dire che mia madre venne trovata dopo sei giorni che si aggirava in un bosco. Iniziò subito a raccontare la sua storia con monotonia e cocciutaggine, ma naturalmente quando dopo molte ricerche la polizia individuò una villa che poteva rispondere ai requisiti i due vecchietti si erano volatilizzati, facendo sparire con loro qualunque traccia. In cantina, simpatico scherzetto, lasciarono solo a marcire la carcassa del mio povero padre. Di loro nessuno ha mai saputo più niente, ormai saranno morti da anni serenamente di vecchiaia visto che erano già un po’ avanti negli anni. Io sono ancora vivo, e questo è tutto.