giovedì 30 dicembre 2010

Eventi

Siamo in macchina, Leandro ed io, ad aspettare che Serena e Gorka escano di casa, per cercare insieme di lenire questa noia che ci prende ogni anno, in questo periodo.
- Sai che oggi stavo per mettermi a lavorare? - mi dice Leandro - Ma sì, mi sono detto, tanto non c'è niente da fare. Aspetto sempre di trovare un po' di tempo libero per rilassarmi, poi quando sono in ferie non resisto. Inutile, mi rompo i coglioni.
Leandro piega il ginocchio sul cruscotto e con lo sguardo attraversa i vetri appannati dal freddo, poi dice:
- Minchia il giorno di Natale è peggio della Domenica, Cristo.

Non vediamo Serena e Gorka da più di un anno, il lavoro ci ha sparsi tutti in città diverse. E il Natale finisce per essere uno dei pochi momenti dell'anno per ritrovarci.
- Auguri! - sorridono venendoci incontro Gorka e Serena - Che si fa?
- Mah, un giro in macchina e una birra all' Anfora? - propongo. Illuso che possa bastare a far passare la serata. Serena sorride a Gorka che alza un sopracciglio, poi mi dice:
- Passiamo a prendere le sigarette.

Usciamo dal complesso di palazzine tutte rosa e ci dirigiamo verso il centro.
- Allora? Che ci raccontate? - domanda Serena.
- Gossip, nessuno. - rispondo io - Ma da quando sono arrivato, tutti mi parlano di un vulcano sommerso tornato in attività, a largo di Salina o Panarea, non ho ben capito. I pescatori delle Eolie hanno ritrovato centinaia di pesci morti, a galla, lungo un tratto di mare dove l'acqua bolle. Inoltre - dicono - che il 28 dicembre è previsto un mare moto, con onde alte 20, 30 metri. Tanto che - dicono - la protezione civile ha già acquistato migliaia di sacchi neri per imballare i morti del disastro.
- E anche i vivi. - si dice Leandro.
Gorka mima i movimenti di un surfista e dice: - Il mare moto, il mare moto.
- Ma tu ci credi? - mi domanda Serena.
- Ma quale mare moto, sono tutte minchiate. - mi anticipa Leandro.
- Io dico che una cosa del genere, oggi, si può prevedere. Poi, se non ci avvertono in tempo per evacuare, allora proprio non c'è speranza. Comunque, una mia amica laureata in scienze ambientali dice che il peggio può accadere solo se erutta l'isola di Vulcano. Perché non è in attività da tempo ed ha la bocca tappata. Se salta Vulcano, noi non esistiamo più.
- Un po' come con la Raffineria di Milazzo. - incalza Leandro, dopo aver acceso una sigaretta - O la Centrale Enel, che dicono produca solo vapore acqueo, ma qui la gente continua a morire di malattie polmonari, come se nulla fosse.
E sbuffa una nuvola di fumo, seguita da un leggero fremito alle palpebre, diventato cronico almeno quanto la mia tosse.

Accostiamo all'altezza di un distributore automatico di sigarette.
- Tu cosa vuoi? - domanda Serena a Leandro che con due dita rovista il fondo di un portamonete e dice:
- Diana, morbide. Eh, senti paga tu che poi ti offro la birra.
Poi si volta verso di me e un lampione gli illumina la fronte madida: - Guarda qua, ho un pugno di monetine di resto che se arriva un colpo di vento se ne volano via. Hanno più peso che valore.
- Puoi farci un cuscino. - gli rispondo io - Almeno ci dormi su.
Il tempo che Serena rientri in macchina, distribuisca i pacchetti, e ripartiamo, tutti sulla stessa barca. - Centro? - dico io.
- No dai, - si scazza Leandro - fumiamoci quest'altra sigaretta e poi andiamo a berci una birra.

Serena si aggrappa ai due sedili anteriori ed emerge fra me e Leandro:
- Avete sentito al telegiornale di quella pioggia di pesci?
- Dove? - la guardo nello specchietto retrovisore.
- Non ricordo. - poi si volta: - Gorka dov'è successo?
- Credo in un paesino del nord Italia.
Continua Serena: - Praticamente c'è stato un temporale, e una tromba d'aria ha risucchiato i pesci dal mare, o da un fiume, o forse da un lago. Vabbè, sta il fatto che dopo questa tromba d'aria si è riversata sul paese una pioggia di pesci. Al telegiornale facevano vedere le casalinghe che riempivano le ceste con i pesci piovuti dal cielo.

Svoltiamo sulla strada panoramica, lungo il mar di ponente, dove di giorno si vedono le Eolie che dormono sul filo dell'orizzonte. Adesso è notte e in fondo al buio le piccole luci delle case di Lipari si confondono con le stelle.
- A proposito di trombe d'aria, riprendo io, avete mai visto delle code di ratto?
- Che schifo. - fa Serena con una smorfia.
- Sono delle piccole trombe d'aria che a distanza sembrano delle vere e proprie code di topo che piroettano. Spesso d'inverno se ne vedono lungo la costa. Dicono che i pescatori di queste parti conoscono delle filastrocche per tagliare in due le code di ratto. Saranno rimasti in pochi, ma ci sono. Immaginatevi delle code di ratto lungo la spiaggia di ponente e i vecchi pescatori che vanno in spiaggia a cantargli contro. E il bello è che funziona. Vi giuro, una volta ero a correre in spiaggia, a un certo punto alzo gli occhi e vedo a distanza una, due, tre code di ratto. Una paura. Mi sono detto: minchia e adesso? Se mi risucchiano chissà dove cazzo vado a finire. A un certo punto vedo che una coda di ratto si strozza in due e piano piano si ritira verso l'alto. Vi dico una di quelle cose che nel mentre dici: vaffanculo tutto. Poi mi hanno raccontato dei pescatori e delle filastrocche. Io non è che ci credo, ma ho molta più fiducia e speranza in un vecchio pescatore di novant'anni che non nelle previsioni del tempo.

Parcheggiamo, ed entriamo all'Anfora per berci una birra. Uno di quei posti dove c'è sempre la stessa atmosfera. Dove puoi stare sicuro che il tempo non passerà mai a cambiare le cose. Ma ci rompiamo subito, decidiamo di tornare in macchina e farci un ultimo giro, prima di salutarci.

Lentamente, vaghiamo, lungo un rettilineo d'asfalto che per chilometri costeggia la spiaggia di ponente, in silenzio, a respirare nicotina a pieni polmoni.
- Sapete, - dice Leandro - una decina di anni fa una specie di mare moto ha spazzato via proprio questa strada. Era in corso una gara di pesca con canna da riva. Minchia, quell'anno si sono pescate le aiole più grosse che io abbia mai visto.

Poi più niente, nessuna parola. Fino a quando arriva il momento di salutarci. Dopodomani, il 27, Serena e Gorka tornano a Milano.
Ci abbracciamo. Poi, con l'alba di un sorriso in volto, Gorka mi dice:
- Mi raccomando, attento al mare moto.

E se mi trovassi davanti una di quelle onde di 20 metri?
Chissà se mi basterebbe una tavola da surf?
Quell'onda potrei cavalcarla. E rimanere a galla il più a lungo possibile.

martedì 30 novembre 2010

Romanzo completo

(Si può trovare anche su Facebook in Romanzi Brevi di Luca Lorenzini)

Questo è un romanzo completo. Ha un inizio, una parte centrale e una fine. L'inizio presenta la struttura del romanzo: inizio, parte centrale e fine. La parte centrale chiarisce il ruolo introduttivo svolto dall'inizio e il ruolo esplicativo svolto dalla parte centrale.
La fine arriva improvvisa.

mercoledì 3 novembre 2010

Riportami indietro

Bar Molina di via Canonica. Caffè, brioche, e Corriere della Sera.

Entra nel bar un uomo sulla cinquantina, è Gino il tassista. Si tampona la fronte con un fazzoletto da naso. Sosta alla cassa e paga un caffè. Prende lo scontrino e il resto. Attraversa il vuoto che c'è tra la cassa e il bancone. Mette il resto in tasca e passa lo scontrino al barista.
- Potevi pagare dopo. - Gli dice il barista.
- Sta zitto che oggi non è giornata. - Gino continua a tamponarsi la fronte.
- Che è? Qualcuno t'ha puntato la pistola al culo? - Gli dice il barista mentre poggia la tazzina sul piattino.
- Ridi te. Tutto il giorno col grembiule sulle palle. Invece di andare a vedere la vita fuori. Alla mia età ti ritroverai ancora in questo bar. Poi entrerà qualcuno che ti sparerà un colpo e non saprai nemmeno perché. Bella vita di merda.
- Oh, senti, vedi di non portarmi male che c'ho ancora un paio di piaceri da passarmi.
Gino beve il caffè in due sorsate, da un'occhiata al fondo, poi poggia la tazzina sul piattino e continua a parlare con il barista.
Io da che ero seduto al tavolino, di fianco al poker elettronico, mi alzo per andare verso il bancone e chiedere un bicchiere d'acqua.
- Nella vita bisogna pur rinunciare a qualcosa,... ehi Manlio! - e schiocca le dita nella mia direzione.
- Ciao Gino, come va?
- Diciamo bene. Ti va di venire a fare un giro in taxi? Offre lo 02-4040.

Saliamo in macchina e ci dirigiamo verso la stazione dei taxi più vicina.
- Posso? - Faccio per accendere la radio e sentire qualche notizia. Giusto per sapere dove va il mondo.
Gino annuisce, poi con un dito sfiora un punto imprecisato del cruscotto e all'improvviso tutto si illumina.

All'altezza di un panificio un tipo ci fa segno di fermarci, poi sale a bordo e ci chiede di portarlo sui navigli. Gino inizia a far girare il tassametro e parte.
Poco dopo il tipo inizia ad agitarsi, non abbiamo ancora raggiunto la via che ci ha indicato. Il tassametro continua a girare.

Il tipo guarda fuori dal finestrino. Probabilmente per vedere da che parte stiamo.

Intanto alla radio finiscono per parlare di Silvio Berlusconi, e Gino sbotta:
- Ma non ci rompete i coglioni. E lasciatelo governare. Poi, se non combina niente se ne torna a casa. Arrivederci e grazie.
Il tipo fa qualche considerazione ma Gino non lo ascolta, continua per la sua strada. Il tassametro ha raggiunto una cifra considerevole.
Al che il tipo si sporge in avanti. Mostra una foto a Gino, e dice:
- Mio padre ha fatto il tassista per quindici anni. Guadagnava dieci milioni al mese e ne dichiarava appena tre.
E Gino: - Se gli andava così bene perché ha smesso?
- L'ultimo passeggero che ha preso su, gli ha chiesto di essere accompagnato fuori città, in campagna. Poi arrivati in una via secondaria l'uomo gli ha sparato un colpo in testa e gli ha lasciato il resto.
- Ah. - Gino guarda oltre lo specchietto retrovisore. Fuori dal taxi.
- Vedi, io adesso potrei spettinarti questo bel riporto. E' solo che non voglio fottermi la vita perché a uno stronzo piace farsi i giretti in macchina, facendosi pagare la benzina da quelli a cui da un passaggio. Quindi vedi di riportarmi dove mi hai caricato e la cosa finisce qua. Altrimenti in ricordo della buona guida di mio padre, ci facciamo un pellegrinaggio alla strada di fango dove l'hanno impallinato, gli recitiamo una preghiera, e poi ti dico amen.
Gino si volta verso il tipo: - Ma io non...
- Senti, probabilmente anche a mio padre piaceva allungare un po' la strada ma sono sicuro che almeno alla fine il conto lo arrontondava per difetto. Invece tu appartieni a quelli che il culo lo prendi senza far godere neanche un po'. Sei avaro. Quanto hai rubato all'ultimo coglione che si è seduto quì dietro, eh? Solo che adesso la posizione varia. Un po' di fantasia anima la coppia, non credi?
- E' solo che...
- Te lo ripeto. Riportami dove mi hai incontrato. Azzeri il tassametro ed io ti sarò sempre grato per il giro panoramico.
Gino non sa cosa fare.
- Riportami indietro. - Gli dice il tipo. - Non ne sei capace, vero? Nessuno lo è.
A questo punto accostiamo. Il tipo apre lo sportello e buonanotte ai suonatori.
Per un attimo rimaniamo a fissarci, io e Gino, così: con lo sportello posteriore sinistro aperto come il portellone di un aereo in volo, dal quale si è appena lanciato un uomo senza paracadute.
E soffia. Il vuoto che occupava il sedile posteriore, soffia via. Risucchiato dalla forza di gravità che lo riporta a terra. E una volta a terra riprende peso.

Torniamo dalle parti del bar Molina. Poco prima vediamo che stanno sostituendo l'insegna del panificio con quella di una nuova gastronomia cinese. Appena ieri c'ero entrato per comprare della focaccia calda.

Rientriamo al bar. Gino mi dice di aspettarlo al bancone. Si ferma alla cassa e mi offre un caffè. Con una mano prende lo scontrino e con l'altra mette il resto in tasca. Si avvicina al bancone. Passa lo scontrino al barista. Poi riprende il resto dalla tasca, lo deposita nel piattino delle mance e dice:
- Arrivederci, e grazie.

venerdì 8 ottobre 2010

Bisogna saper perdere


Il problema più grosso restava sempre quello della batteria. Era un po' che ci pensavamo, senza riuscire a trovare una soluzione accettabile. E senza batteria, lo sapevamo tutti, non si può fare un complesso. La soluzione arrivò un pomeriggio di giugno, e come spesso accade, arrivò per caso. Erano le cinque e noi stavamo seduti sullo scalone, un po' tristi e indecisi sul da farsi. C'erano varie ipotesi sul tappeto: dalle più innocenti, come una bella partita a campana, che però era un gioco da piccoli e quindi negli ultimi tempi caduto decisamente in disgrazia, alle più ardimentose, come la classica battuta di caccia alla lucertola o il nuovo sport che avevamo appena scoperto, la ripidissima discesa del garage in bicicletta senza toccare i freni. Uno sport da veri uomini, infatti era già costato quattro denti alla povera Cristina, che aveva voluto provare a tutti i costi, e noi la sconsigliavamo, e lei dài che insisteva, e poi si è cacata sotto a metà discesa e ha frenato coi freni davanti e naturalmente è partita tipo catapulta. Quando l'abbiamo portata a casa con la faccia piena di sangue la madre è svenuta e così non sapevamo cosa fare, con Cristina che frignava da una parte e sua madre per terra dall'altra, meno male che è arrivata una vicina.
Franco, che era il più grande del gruppo, lanciò la proposta più allettante, l'unica in grado in quel periodo di distrarci dall'idea fissa del complesso. Si guardò intorno con aria circospetta per essere sicuro che nessuno, all'infuori di noi, lo potesse sentire, poi disse sottovoce:
-Pippe? Si accese una vivacissima discussione condotta però da tutti a voce bassissima, da veri carbonari. Qualcuno disse "Basta, sono due mesi che ci tiriamo le pippe sempre sullo stesso giornaletto, non mi si alza più!", qualcun altro rispose "E' perché sei frocio che non ti si alza più", e si misero a darsela di santa ragione ma sempre in silenzio. Fino a che Franco disse:
-C'è una novità. Guardate un attimo sotto la mia maglietta, ma senza farvene accorgere. Facendo cerchio intorno a Franco, uno alla volta guardammo sotto la sua maglietta, che lui alzava e abbassava velocissimo. Beh, ragazzi, nessuno di noi aveva mai visto niente del genere. Su quel giornaletto c'era la fica più grande che avessimo mai ammirato, e la cosa più incredibile era che non si trattava di disegni, ma di fotografie. Eravamo senza fiato, storditi, e al colmo dell'eccitazione. Stavamo già alzandoci per andare nel nostro posto segreto quando ci fu il colpo di scena. Dall'angolo della strada apparve la signora Farulli che tornava a casa con la spesa. Uno di noi lanciò un urlaccio:
-Cazzo! Ho scoperto come faremo a fare la nostra batteria. Stava fissando quasi in trance il fustino di Dash che la signora Farulli teneva in mano. Allora i fustini erano cilindrici, ed effettivamente con un po' di fantasia potevano essere assimilati a dei tamburi. Da quel momento, rimosso il blocco iniziale, la realizzazione della batteria fu molto agevole e spedita. Applicammo in cima a due fustini due tamburelli di quelli con cui si giocava con le pallette di gomma piene, e per i piatti ci facemmo aiutare dal padre di Franco, che aveva un negozio di alimentari. Ci mise da parte tre coperchi di latta di quelle grandi confezioni di tonno che arrivavano solo nei negozi, poi bastava fargli un buco in mezzo, metterli in cima a un bastone e la batteria era bella che fatta. Eravamo pronti ad andare in scena. Così un pomeriggio, non senza batticuore, salimmo sul Montarozzo. Il Montarozzo era effettivamente un montarozzo di terra situato nel prato di fronte ai palazzi, e l'avevamo eletto a nostro palcoscenico ideale. Preparammo con cura gli strumenti: oltre alla batteria, avevamo tre chitarre, o meglio, io e Stefano avevamo una chitarra giocattolo, e quello sculato di Franco aveva una chitarra elettrica vera, con tanto di amplificatore, che però non ci eravamo portati sul Montarozzo tanto non si poteva attaccare da nessuna parte. Mauretto era alla batteria, e Angelo, suo fratello più piccolo, che non suonava niente, faceva il presentatore. Dai palazzi di fronte non arrivava praticamente alcun segno di vita, a parte una signora che stava sbattendo i tappeti con il ben noto e temuto battipanni. Un brivido percorse la nostra schiena, mentre Angelo, leggendo il foglietto che gli avevamo preparato, urlò a squarciagola:
-Signore e Signori, ho l'onore di presentarvi un complesso che rivole... rivoluziara... rivoluzionerà la musica italiana! Sono stasera con noi, The New Rokes! Un bell'applauso di incoraggiamento! La signora non applaudì, ma smise di battere il tappeto e si affacciò al balcone, e questo per noi fu un incoraggiamento sufficiente. Cominciammo lo spettacolo. Essendo all'inizio, il nostro repertorio era piuttosto limitato: per l'esattezza, sapevamo fare solo "Bisogna saper perdere", ma su quella ci eravamo preparati benissimo. Eravamo mediamente piuttosto stonati, ma quando arrivava il famoso colpo di tacco sul ritornello, lo eseguivamo con perfetto sincronismo. Alla fine della canzone, la signora ci regalò un sorriso e un applauso, e noi le regalammo altre due volte "Bisogna saper perdere", fino a quando lei rientrò in casa.
Considerammo la nostra prima apparizione dal vivo un grosso successo, e da quel giorno per noi si aprì un periodo molto felice e intenso, diviso fra la carriera musicale e la scoperta del sesso, nascosto sotto la maglietta di Franco, tra le pagine di quel giornaletto che per alcuni mesi fu la nostra lettura preferita.

venerdì 1 ottobre 2010

Voglio solo sapere come stanno

Sono appena in tempo per l'appuntamento. Pedalo lungo la corsia riservata ai bus e ai taxi. Ho appena attraversato un incrocio col rosso, guardando a destra e a sinistra, quando sento un tonfo di lamiere seguito da un lungo silenzio. Poi delle urla.
Mi volto e torno subito indietro. Vedo un ragazzo con il casco che giace su un fianco, immobile. Pochi metri dopo, una ragazza, anche lei su un fianco, allunga le braccia per chiedere aiuto. E urla.
Metto la bici sul cavalletto e mi avvicino alla ragazza.
- Non toccatela - dico.
Ma due uomini sono già in suo soccorso. Tutt'intorno, la gente si raccoglie e commenta. Alcuni telefonano col cellulare al pronto intervento.
La ragazza ha una frattura esposta all'altezza del ginocchio. Da li in giù, il resto della gamba giace sull'asfalto, separata dal corpo. Mi avvicino, ancora.
- Chiamate un'ambulanza, presto... - dice la ragazza.
Poi porta una mano alla coscia.
- Non guardatemi...per favore...amore non guardare...non guardare... - dice al ragazzo che si è appena ripreso, e seduto con il casco in mano fissa l'asfalto davanti a se.
Uno dei due soccorritori della ragazza le sfila la cintura dai jeans a vita bassa e gliela stringe all'altezza della frattura. Io non riesco a fare più nemmeno un passo. Non c'è niente che io possa fare.

Risalgo in bici, con uno strano senso di pudore, e mi avvio verso il luogo dell'appuntamento.

Per tutta la notte aspetto. L'indomani, presto, telefono al Fatebenefratelli, l'ospedale più vicino al luogo dell'incidente. Voglio conoscere le condizioni di quei ragazzi, ma la donna del centralino mi fa domande a cui non so rispondere. Mi mette in attesa. Poi mi passa l'interno del pronto soccorso generale.
- Buongiorno. Vorrei conoscere le condizioni di un ragazzo e una ragazza che ieri sera, intorno alle nove, hanno avuto un incidente stradale all'incrocio di Via Senato e Corso di Porta Venezia. Credo che la ragazza sia molto grave. Non so se è li da voi che li hanno portati, ma siete l'ospedale più vicino...
- Mi dica i nomi.
- Non li conosco.
- Scusi, lei è un parente?
- No. Mi chiamo Manlio Greco. Passavo di li, quando c'è stato l'incidente e ho assistito ai primi soccorsi.
- Mah..., io non posso dirle niente. E' una questione di privacy. Per poter avere qualunque tipo di informazioni lei deve essere un parente, o comunque qualcuno autorizzato dalla famiglia. Poi è possibile che siano stati trasportati in un altro ospedale, in un secondo momento.
- Ma io voglio solo sapere come stanno.
- Mi dispiace, ma come le ho spiegato non è possibile.
- Va bene...comunque intanto la ringrazio.

Rialzo la cornetta e telefono ai vigili urbani. Chiedo se...Il centralino mi passa un interno. ...Prego. Attendo.
- Pronto?
- Buongiorno. Mi chiamo Manlio Greco. Vorrei avere delle informazioni riguardo un ragazzo e una ragazza. Hanno avuto un incidente stradale ieri sera, intorno alle nove, nei pressi di Corso di Porta Venezia.
- Lei è un testimone?
- No. L'incidente è avvenuto alle mie spalle. Ho solo assistito ai primi soccorsi. La ragazza era in gravi condizioni. Vorrei sapere se sono stati ricoverati e in quale ospedale.
- Conosce per caso i loro nomi?
- Veramente no. Volevo solo sapere come stavano.
- Senta, capisco. Posso darle un numero di telefono per parlare con l'agente intervenuto sul posto. E' l'unico che può dirle qualcosa. Noi non registriamo il ricovero degli incidentati. E comunque, non potremmo dirle niente. Per motivi di privacy.
- Va bene, mi dia il numero. La ringrazio.
Telefono all'agente. Non risponde nessuno. Quindi telefono al Policlinico.
- Pronto?
- Policlinico di Milano?
- Si, mi dica.
- Vorrei sapere se ieri sera dopo le nove, li da voi, in seguito ad un incidente stradale sono stati ricoverati un ragazzo e una ragazza. La ragazza aveva una frattura esposta.
- Mi faccia un po' vedere... Si, no. Da quell'ora in poi l'unico ricovero che ci risulta riguarda un ragazzo con una commozione cerebrale che è stato dimesso stamattina. A parte questo, nessuna ragazza con una frattura esposta. Probabilmente si trova al Fatebenefratelli. Ma io questo non glielo saprei dire.
- Va bene, grazie. Mi ha già detto quanto basta. Buongiorno.
Ritelefono al Fatebenefratelli. Questa volta direttamente all'interno del pronto soccorso generale.
- Buongiorno. Mi chiamo Manlio Greco. Vorrei sapere se avete ricoverato una ragazza con una frattura esposta... Ha avuto un incidente stradale ieri sera all'incrocio di Via Senato e Corso di Porta Venezia. Al Policlinico mi hanno detto che la ragazza forse è li da voi. Non sono un parente, ne un testimone dell'incidente. Non conosco nemmeno il nome della ragazza. Voglio solo sapere come sta.
- Si, signore. Ha già parlato con me, meno di un'ora fa. Senta. Come le ho detto prima, se non è un parente, ne una persona autorizzata dalla famiglia, lei non può avere da noi alcuna informazione.

Mi scuso per il disturbo e abbasso la cornetta.

Non potrò sapere più niente di quella ragazza.

giovedì 23 settembre 2010

domenica 25 luglio 2010

Aureole

(Questo racconto è stato scritto da Lilli Guacci. L'ho letto, mi è piaciuto, e ho chiesto all'autrice se potevo metterlo su Stories. Lilli ha acconsentito, e la ringrazio. Quindi, eccolo qui.)


Taci.
Ta-ci-mi l’immagine che vorresti riflettere. Potrei scoprire una ruga, che come una ferita inizierebbe a sanguinare e mi sarebbe fatale.
Sai che non mi posso permettere il lusso che altre donne hanno come optional già compresi nel prezzo, anni come rughe, segni di molli debolezze alimentari, sbavature, errori da allattamento, plissè carnali un po’ qui e un po’ là.
Tutte faccende che le signore chiamano a loro difesa, come essere mature e femminili e che propagandano come segnale di voluttuosità, per difendere il territorio e alzare cortine davanti agli occhi dei loro maschi imprigionati.
Li sento guaire anche da qua in alto, i loro maschi in gabbia.
Perché li conosco.
Perché li sento girarsi e rigirarsi nei letti, i loro maschi, anno dopo anno, inquietudine dopo inquietudine, smascherati oramai a loro stessi, ma non al resto del mondo.
Soffrono, perché temono di aver commesso il grande sbaglio, errore della vita, che veglia e non fa dormire mai.
Si sentono sfuggire i palpiti dalle mani, fluire le opportunità, si fermano per strada, in cimbali, davanti ai ragazzini di 16 anni che passano i quarti d’ora alle fermate del tram, appiccicati, e poi ne passa uno di tram e poi ne passa un altro e quei due sempre li, con le labbra che non si staccano, ansimano e cadono uno nell’altro. E i loro maschi, inchiodati al semaforo, mani sul volante, io li vedo: lo stereo li sta stendendo con la musica anni ’70 che gli parla di quando avevano solo sogni, pupille incollate su quelli della fermata del tram, a morire d’invidia e di desiderio, di nostalgia e di struggimento, e di preoccupazione per gli anni restanti della loro vita.
Hanno la clessidra disegnata sulla faccia e un punto interrogativo sulla testa che le mogli – in un grottesco equivoco - prendono per una aureola.

E invece quell’interrogativo pesa sulla testa e sulla patta. Perché hanno in corpo – come una promessa di cui si aspetta per anni una qualche riscossione – la memoria e la smania e la voglia di provare ancora, in bilico, un violento pugno alla bocca dello stomaco. In bilico, per vedere se si sta ancora in piedi, se si regge.
Si chiedono se a loro succederà mai più – un affare come un bacio alla fermata del tram - , si chiedono se ne sono capaci o se ne hanno il coraggio, se la strada è già tracciata, se le sorprese sono finite, se c’è ancora vita vita o solo giorni, se c’è la possibilità di un respiro più ampio, di muscoli più tesi, di denti tra le labbra, di nuovi solchi da segnare con le unghie, strizzare su una pelle non conosciuta.
Si chiedono se ci sono ancora, se sanno rinnovare o anche solo riconoscere sguardi, il dubbio del ridicolo appuntato sul risvolto delle giacche quando si voltano a sbirciare timidamente una dea che passa, più in là.

Schiene dritte come suppliche, mani sulla carta che lavorano e vengono interrotte da idee così vitali e violente, che si aprono come una finestra di windows, una via l’altra, una via l’altra, che domani vado dal medico, forse un analista, ma non è così grave davvero, che magari sono stressato o magari me l’avevano detto che intorno ai 50…. da uscir di senno per pochi centesimi di secondo, ogni mattina, sotto la doccia.

Questo si agita sotto le aureole che tornano a casa, anche quasi serene.
Ma nella ventiquattrore io so che hanno dentro un pacchettino di energie in più, che non sanno ancora dove parcheggiare. E ogni giorno un granello in più si aggiunge, aumentando il travaglio e il volume delle aspettative.
E le aspettative si trasformano in esigenze e poi in insicurezze e poi in attesa.
In stallo, in compagnia di una pura e semplice attesa.
Attesa paurosa, tremante, pulcino bagnato con cuore di pitone.
Di cosa? Di dove? Di chi?
Non lo sanno ancora, ma di me.
Di me.

Di me, che ho imparato a negare le rughe e a trovare questi scampati e ad accoglierli con cerimonie sottomesse.
Di me, che mi tutelo, per aver poi cura di loro.
Di me, da cui vengono, certi di essere nuovamente potenziati, così tanto sicuri che il mio sia amore da dimenticarsi il prezzo che pagano.
Arrivano con l’arroganza dei potenti, dopo che li ho accettati, ma hanno occhi da riempire nuovamente di vera stima e forza e sicurezza e certezze che tutto andrà un’altra volta bene.
Arrivano fasci di nervi, arrivano con troppe sigarette, arrivano con addosso le bestemmie di un corpo che non ha abbastanza goduto e dormito. Hanno fame e sbranano, sete e trangugiano, fretta e divorano, tutto subito per sempre. Arrivano sicuri del denaro e uccisi nei genitali, con la testa che non stacca mai. Arrivano pensando che l’amore si faccia mezzi vestiti e le prime volte li lascio scopare così, con l’orologio addosso, perché riprendere in mano loro stessi non è così semplice e non si fa in una volta sola.

Sono millefoglie ruvide accumulate nel tempo, ogni giorno un sottilissimo velo grigio plumbeo posto sopra il centro del piacere. Non forzo, non straccio, rimuovo con gentilezza, li scosto con apparente timidezza, sapendo bene che di determinazione ne hanno piene le tasche.
Devono poter pensare di essere dalla parte della forza e della libertà, di non essere dipendenti, mentre il vero territorio vitale scivolando settimana dopo settimana diventano le mie lenzuola e gli aromi che respirano nei vapori dei miei bagni. Pezze umide vapori caldi, non pensare non pensare, respira forte.

Oramai hanno gettato il loro cuore al di là dell’ostacolo. Io sono solo la prima ventata, il grande balzo forse non verrà mai, ma se ne vanno come se avessero trovato una nuova protezione per i loro ansimi.
Certi vanno avanti. Altri aprono una nuova finestra, una sola nuova finestra.

Faccio quel che faccio.
Non comprano rughe.
Cedo attenuanti alle aureole in subbuglio, che sbirciano invidiose le coppie di ragazzini, alle fermate dei tram.

martedì 20 luglio 2010

Barbieri al tempo delle Lire

Sabato mattina, è quasi mezzogiorno. Dalla radio accesa esce monotona la voce del lettore della Rai. Io mi guardo allo specchio e vedo una persona che non mi sta simpatica e non mi piace neanche un po'. Distolgo lo sguardo e mi fisso su una di quelle confezioni di sapone da barba che si possono trovare solo dal barbiere, quelle confezioni senza marca e senza tempo, incuranti delle mode e del marketing. Sembra stupido, ma così mi sento a mio agio. La voce alla radio continua a parlare, nel silenzio della bottega rotto soltanto dal tenue zic zic delle forbici all'opera:
"Tokyo. All'età di 88 anni è morto ieri Taikichiro Mori, che con il suo patrimonio valutato in circa 18mila miliardi di lire è stato considerato negli ultimi due anni, dall'autorevole rivista americana Forbes, l'uomo più ricco del mondo. Dopo la tragica morte del figlio primogenito, Taikichiro Mori lascia in eredità al suo secondogenito un immenso patrimonio immobiliare, per un totale di un milione e 250 mila metri quadrati di uffici e appartamenti nel centro di Tokyo."
Il barbiere che mi sta tagliando i capelli dà una tirata alla sua sigaretta, poi l'appoggia sul bordo della mensola dopo aver fatto cadere la cenere a terra con un colpetto della lunghissima unghia del mignolo, e si rivolge al suo collega, in questo momento alla cassa.
- A Frà, hai sentito?
- Che?
- Ho detto hai sentito?
- Stavo dando il resto al cliente, non ho sentito niente.
- E quando mai, nemmeno le cannonate senti, tu. (Mi sorride complice allo specchio. In quel momento scoccano le dodici, e il cannone del Gianicolo spara il suo colpo a salve. Billy Wilder non avrebbe potuto fare di meglio, penso io).
- Che dovevo sentire?
-Alla radio, Caciro Comori, l'uomo più ricco del mondo...
- Embè?
- Se n'è andato anche lui. (Guardandomi con aria solenne).
- Caciro Camori, e da dove veniva, dalla Cina?
- E chennesò, Cina Giappone India, tanto quelli sò tutti uguali, so solo che era l'uomo più ricco del mondo, e che se n'è andato anche lui come tutti gli altri.
- Ma ricco de che?
Il mio barbiere ha finito il suo lavoro. Con uno specchio mi mostra la mia nuca e impietosamente la chierica sempre più vistosa. Mentre con la spazzola mi toglie via gli ultimi pelucchi dalla giacca, si rivolge ancora al collega:
- De ‘sto ca… mmm, nun me fa parlà…a Frà, certo che non capisci proprio un cazzo, te...
- Ha parlato il filosofo.
Ridono, mentre il cliente successivo si accomoda sulla sedia davanti allo specchio.

venerdì 16 luglio 2010

Volevo andare in viaggio

- Barba?
- Sì.
- Le basette le togliamo?
- Le sfoltiamo un po', ma non a punta.

In vetrina, i poster di acconciature maschili anni settanta limitano la vista sulla circonvallazione del 29 e del 30. E una vecchia radiolina, sintonizzata su una stazione commerciale, sconta il ritmo del pettine e delle forbici.
Oggi il barbiere di Coni Zugna è in camicia frescolino verde acqua, baffo e pelata. L'amico, seduto ad aspettare il suo turno, indossa una parure d'oro (anello, catena e crocifisso) e un pantalone nero, con la riga, raccolto sopra le ginocchia a mostrare il calzino. Il barbiere si rivolge all'amico riflesso nello specchio:
- La seconda non mangia niente. La porto fuori, in pizzeria, e mezza della sua pizza me la fa mangiare a me. L'altra volta siamo usciti a cena con una sua amica che alla fine ha pagato pure. Volevo offrire io ma non ha voluto. Tutti i soldi che ho speso con la prima, li ho recuperati con questa.

- La prima sì che mangiava: antipasto, primo, secondo. Gli piaceva.
“Questa invece. Ogni tanto si fa sentire, scopiamo e scompare. Poi mi telefona e mi dice che senza di me non riesce a stare.
“La prima mi faceva rincoglionire, facevo tutto quello che voleva. Non so quello che m'ha fatto.
“Con queste che facciamo?” mi dice.
- Le accorciamo un po', ma non a punta. Questi li tagliamo con la forbicina, ma solo i peli più grossi, - gli rispondo io con la mia solita mania delle basette.
- Eh ma stasera vado a ballare a Melzo, - dice il barbiere all'amico. - Tu ci sei andato a Melzo? Ne ho visto una. Stasera la vado a conoscere. E tu ci vieni a Melzo? Con tua moglie.
- No, - risponde l'amico. Io a ballare vado solo. Non mi piace andare in compagnia. Io a ballare devo andarci solo.
Riprende il barbiere:
- Alla prima gli piaceva ballare. A questa invece no. Ogni tanto scompare.
“Poi mi telefona e piangendo mi dice che gli manco. Trombiamo e basta.”

***

Intanto alla radio danno Il triangolo no di Renato Zero.

- Dopobarba? Crema? - Il barbiere fa una pausa, poi mi ripete - Crema? Dopobarba?
- Crema, - gli dico.
- E in vacanza dove vai? - gli domanda l'amico, disinteressato.
- Dovevo andare in viaggio con la prima, poi è saltato tutto.
“La seconda mi chiede sempre: Mi porti in Sicilia? Mi porti in Sicilia?

- Poi c'è una mia nuova amica. Io gli ho detto: Vedi che a casa dei miei, in Sicilia, dobbiamo dormire assieme.
“E che faccio?, prima vado con l'amica e credono che è la mia fidanzata.
“Poi, dopo venti giorni vado con la seconda, e in paese tutti accuminciano.
“I miei parenti. Adesso vediamo.”

Squilla il telefono. Il barbiere porta la mano con le forbici e il pettine dietro il fondo schiena. Con l'altra alza la cornetta.
- Pronto? Cià. Vieni a ballare stasera?
“Forse viene anche mio cognato con mia sorella.
“A Melzo.
“Qui ne ho ancora per un'oretta, un'oretta e mezza.
“Ti passo a prendere verso le nove. Cià.”

L'amico si è appena seduto davanti allo specchio. Io con il palmo della mano mi liscio il viso.
- Quant'è che le devo? - domando al barbiere.
- 7 euro, - mi dice, e ammette:
- Non lo so quello che m'ha fatto. Mi sento uno scimunito. Manco un bambino.
“La prima. Mi sono fatto fregare e non ci capisco più niente. Cià.”

martedì 25 maggio 2010

ll Povero Gondoliere

Questo racconto l'ha scritto Pietro

Marco Leoni nacque nel 1653 d.c. da Piero Leoni (ricco mercante di Venezia) con l’ambizione di diventare gondoliere, contro il volere del padre, che voleva che Marco diventasse mercante. Ma egli si opponeva anche quando il padre lo minacciava di negargli l’eredità ma Marco rispondeva sempre in un modo: “ Voglio diventare gondoliere, mettere su famiglia e guadagnarmi da vivere: non ho bisogno dei tuoi soldi “.
Quando ebbe vent’anni non aveva i soldi per comprarsi la gondola, li chiese al padre ma lui non glieli diede.
Un giorno la madre di Marco però, diede segretamente i soldi del padre a Marco. Quando Piero lo venne a sapere strangolò sua moglie per poi pentirsi e suicidarsi senza lasciare un soldo al figlio.
Marco era ora un orfano con i soldi appena sufficienti per comprare una casa e una gondola.
All’età di 21 anni però già lavorava e guadagnava abbastanza bene e conobbe una bellissima ragazza, già corteggiata da un ricco nobile: si chiamava Rosanna, detta Rosa.
Fra i due nacque un grande amore ma Rosa doveva fare una scelta: seguire il suo cuore e andare da Marco, o la ragione e andare da Giordano, il ricco nobile che la corteggiava. In seguito, vi fu una gara fra gondolieri nella quale Marco vinse. Ebbe quindi molta fama in breve e, molto spesso, era scelto come gondoliere dai ricchi e dai nobili, a volte anche su prenotazione.
Rosa così scelse di vivere con Marco ed ebbero una vita felice finché in un triste pomeriggio autunnale di ottobre, dopo che Marco compì venticinque anni, Giordano, il ricco nobile ingaggiò un brigante affinché derubasse la famiglia Leoni di tutti i possibili.
Il brigante riuscì a rubargli quasi tutto e ora la famiglia Leoni era in crisi; vendettero tutto ciò che per loro era superfluo anche se a loro caro, si mangiava cinque giorni la settimana e Marco aiutava in casa, oltre che lavorare come gondoliere.
Purtroppo con il passare dei giorni , non fu più tanto richiesto per il suo mestiere perché perse la gara successiva fra gondolieri; così il salario si abbassava mentre i prezzi del cibo salivano.
Arrivò poi un giorno, triste e bello, tragico ma meraviglioso: Rosa era incinta.
Dal punto di vista economico era una situazione insostenibile, però erano molto felice di diventare genitori.
Rosa e Marco decisero insieme che Rosa e il loro futuro figlio, Carlo, sarebbero andati a vivere da Giordano, per motivi economici, e fecero credere al ricco nobile che il figlio fosse suo.
Giordano poi chiese a Marco, per pura cattiveria di lavorare come servo a casa. Per vedere la sua ancora amata ed ex moglie (ora sposata con Giordano), ma disse di no, perché questa proposta andava contro i sui principi morali: andare fino in fondo nel bene e nel male con la scelta che aveva da giovane, fare il gondoliere, anche se avrebbe comportato questo sacrificio. Così Marco visse sino alla morte solo e povero; vedeva ogni giorno suo figlio andare scuola e piangeva ma andava avanti fino in fondo e così morì, solo e povero, questo fu il suo sacrificio per aver realizzato il suo sogno.
“Salve” disse Carlo “ Salve” rispose Marco, “Mi porta a San Marco?”, “Certo”.
Queste furono le uniche parole che si scambiarono i due.

sabato 22 maggio 2010

@lberi

Questo piccolissimo racconto ha partecipato all'omonimo progetto di scrittura a più mani, organizzato dal laboratorio letterario Post42


Non so niente di alberi. Come di fiori. Non so quando si mangiano le arance, né quando è il momento delle pesche. Il regno vegetale per me è in gran parte inesplorato. Ad esempio, il fico sembra solido, con quei grossi rami nodosi. Invece è insospettabilmente fragile.
La quercia è solida, questo lo so. Infatti si dice: "Solido come una quercia." Il problema è che io non sarei mai in grado di riconoscerla, una quercia. Neanche se ci andassi a sbattere contro. Capace che penso sia un salice, un pioppo, una betulla, invece è proprio una quercia.
Per questo, buon uomo, lei che è sicuramente più pratico di me, saprebbe dirmi se è una quercia questo grande albero dall'apparenza così solida? Affermativo. E quindi posso fidarmi del fatto che la sostanza, in questo caso, corrisponda in toto all'apparenza, non è vero? Suvvia, non mi guardi così. Ora la ringrazio, può proseguire la sua passeggiata.
Andato. Non ho bisogno d'altro. Non so distinguere un cipresso da un banano, ma una corda bella resistente la so riconoscere, eccome.

giovedì 13 maggio 2010

Un nuovo Socrate

Recenti studi sul giovane Socrate ce lo ripresentano in una luce tutt’affatto diversa da quella tramandataci dalla storiografia tradizionale.
Il suo buon amico Cherefonte, noto soprattutto per la famosa interrogazione della Pizia, conosceva il brillante filosofo ateniese fin dall’epoca della di lui fanciullezza e prima adolescenza.
In un testo recentemente ritrovato e attribuito senza ambiguità per l’appunto a Cherefonte,
costui racconta di prima mano il momento in cui ebbe per la prima volta a manifestarsi la sentenza dai più ritenuta fondamento e architrave dell’intero pensiero Socratico.
Narra Cherefonte che Socrate, poco più che bambino, si trovava allora a scuola, nell’aula di downtown Atene che entrambi frequentavano.
La maestra quel giorno decise di fare un’interrogazione di geometria non programmata e quindi completamente inattesa, scatenando il panico tra i giovani discepoli. Per giunta l’argomento era una nuova, arditissima quanto astrusa teoria nota come il Teorema di Pitagora.
Procedendo in ordine alfabetico l’implacabile maestra interrogò Alceo, Anassagora, Anassimandro, Anassimene, Aristotele, e poi Cherefonte, Democrito, Demostene, Eraclito, Parmenide, Saffo, Seneca. E tutti, uno dopo l’altro, balbettarono scuse inverosimili per giustificare la loro impreparazione.
Le solite giustificazioni da che mondo è mondo: mia nonna è caduta dal letto e ho dovuto accompagnarla all’ospedale, le cavallette e altre pestilenze, la periodica invasione degli Spartani o dei Troiani, lo tsunami sollevato dal rovinoso crollo del Colosso di Rodi.
La maestra non si fece intenerire, e il suo registro si riempì di zeri spaccati.
Arrivò il momento di Socrate, che osservava la carneficina compiersi con assoluta imperturbabilità.
“E tu cos’hai da dire, Socrate? Sentiamo un po’.” Lo apostrofò la maestra.
Nel silenzio più assoluto Socrate si alzò, e guardando la maestra fissa negli occhi proferì con voce ferma:
“So di non sapere.”
La maestra rimase in silenzio alcuni interminabili secondi, soppesando la risposta del giovane discepolo, poi disse:
“Ok, c’hai provato, ma ti becchi uno zero spaccato anche tu. Siediti, va là.”