domenica 25 luglio 2010

Aureole

(Questo racconto è stato scritto da Lilli Guacci. L'ho letto, mi è piaciuto, e ho chiesto all'autrice se potevo metterlo su Stories. Lilli ha acconsentito, e la ringrazio. Quindi, eccolo qui.)


Taci.
Ta-ci-mi l’immagine che vorresti riflettere. Potrei scoprire una ruga, che come una ferita inizierebbe a sanguinare e mi sarebbe fatale.
Sai che non mi posso permettere il lusso che altre donne hanno come optional già compresi nel prezzo, anni come rughe, segni di molli debolezze alimentari, sbavature, errori da allattamento, plissè carnali un po’ qui e un po’ là.
Tutte faccende che le signore chiamano a loro difesa, come essere mature e femminili e che propagandano come segnale di voluttuosità, per difendere il territorio e alzare cortine davanti agli occhi dei loro maschi imprigionati.
Li sento guaire anche da qua in alto, i loro maschi in gabbia.
Perché li conosco.
Perché li sento girarsi e rigirarsi nei letti, i loro maschi, anno dopo anno, inquietudine dopo inquietudine, smascherati oramai a loro stessi, ma non al resto del mondo.
Soffrono, perché temono di aver commesso il grande sbaglio, errore della vita, che veglia e non fa dormire mai.
Si sentono sfuggire i palpiti dalle mani, fluire le opportunità, si fermano per strada, in cimbali, davanti ai ragazzini di 16 anni che passano i quarti d’ora alle fermate del tram, appiccicati, e poi ne passa uno di tram e poi ne passa un altro e quei due sempre li, con le labbra che non si staccano, ansimano e cadono uno nell’altro. E i loro maschi, inchiodati al semaforo, mani sul volante, io li vedo: lo stereo li sta stendendo con la musica anni ’70 che gli parla di quando avevano solo sogni, pupille incollate su quelli della fermata del tram, a morire d’invidia e di desiderio, di nostalgia e di struggimento, e di preoccupazione per gli anni restanti della loro vita.
Hanno la clessidra disegnata sulla faccia e un punto interrogativo sulla testa che le mogli – in un grottesco equivoco - prendono per una aureola.

E invece quell’interrogativo pesa sulla testa e sulla patta. Perché hanno in corpo – come una promessa di cui si aspetta per anni una qualche riscossione – la memoria e la smania e la voglia di provare ancora, in bilico, un violento pugno alla bocca dello stomaco. In bilico, per vedere se si sta ancora in piedi, se si regge.
Si chiedono se a loro succederà mai più – un affare come un bacio alla fermata del tram - , si chiedono se ne sono capaci o se ne hanno il coraggio, se la strada è già tracciata, se le sorprese sono finite, se c’è ancora vita vita o solo giorni, se c’è la possibilità di un respiro più ampio, di muscoli più tesi, di denti tra le labbra, di nuovi solchi da segnare con le unghie, strizzare su una pelle non conosciuta.
Si chiedono se ci sono ancora, se sanno rinnovare o anche solo riconoscere sguardi, il dubbio del ridicolo appuntato sul risvolto delle giacche quando si voltano a sbirciare timidamente una dea che passa, più in là.

Schiene dritte come suppliche, mani sulla carta che lavorano e vengono interrotte da idee così vitali e violente, che si aprono come una finestra di windows, una via l’altra, una via l’altra, che domani vado dal medico, forse un analista, ma non è così grave davvero, che magari sono stressato o magari me l’avevano detto che intorno ai 50…. da uscir di senno per pochi centesimi di secondo, ogni mattina, sotto la doccia.

Questo si agita sotto le aureole che tornano a casa, anche quasi serene.
Ma nella ventiquattrore io so che hanno dentro un pacchettino di energie in più, che non sanno ancora dove parcheggiare. E ogni giorno un granello in più si aggiunge, aumentando il travaglio e il volume delle aspettative.
E le aspettative si trasformano in esigenze e poi in insicurezze e poi in attesa.
In stallo, in compagnia di una pura e semplice attesa.
Attesa paurosa, tremante, pulcino bagnato con cuore di pitone.
Di cosa? Di dove? Di chi?
Non lo sanno ancora, ma di me.
Di me.

Di me, che ho imparato a negare le rughe e a trovare questi scampati e ad accoglierli con cerimonie sottomesse.
Di me, che mi tutelo, per aver poi cura di loro.
Di me, da cui vengono, certi di essere nuovamente potenziati, così tanto sicuri che il mio sia amore da dimenticarsi il prezzo che pagano.
Arrivano con l’arroganza dei potenti, dopo che li ho accettati, ma hanno occhi da riempire nuovamente di vera stima e forza e sicurezza e certezze che tutto andrà un’altra volta bene.
Arrivano fasci di nervi, arrivano con troppe sigarette, arrivano con addosso le bestemmie di un corpo che non ha abbastanza goduto e dormito. Hanno fame e sbranano, sete e trangugiano, fretta e divorano, tutto subito per sempre. Arrivano sicuri del denaro e uccisi nei genitali, con la testa che non stacca mai. Arrivano pensando che l’amore si faccia mezzi vestiti e le prime volte li lascio scopare così, con l’orologio addosso, perché riprendere in mano loro stessi non è così semplice e non si fa in una volta sola.

Sono millefoglie ruvide accumulate nel tempo, ogni giorno un sottilissimo velo grigio plumbeo posto sopra il centro del piacere. Non forzo, non straccio, rimuovo con gentilezza, li scosto con apparente timidezza, sapendo bene che di determinazione ne hanno piene le tasche.
Devono poter pensare di essere dalla parte della forza e della libertà, di non essere dipendenti, mentre il vero territorio vitale scivolando settimana dopo settimana diventano le mie lenzuola e gli aromi che respirano nei vapori dei miei bagni. Pezze umide vapori caldi, non pensare non pensare, respira forte.

Oramai hanno gettato il loro cuore al di là dell’ostacolo. Io sono solo la prima ventata, il grande balzo forse non verrà mai, ma se ne vanno come se avessero trovato una nuova protezione per i loro ansimi.
Certi vanno avanti. Altri aprono una nuova finestra, una sola nuova finestra.

Faccio quel che faccio.
Non comprano rughe.
Cedo attenuanti alle aureole in subbuglio, che sbirciano invidiose le coppie di ragazzini, alle fermate dei tram.

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