domenica 10 marzo 2013

Dove eravamo rimasti

Ricordo che eravamo seduti al bar a chiacchierare del più e del meno, e a sorseggiare un aperitivo, quando lui mi disse: -Sono un po’ preoccupato per il colore della mia merda. -Va bene che ci conosciamo da quando eravamo in terza media, ma ti pare il caso di parlarmi della tua merda dopo quasi un anno che non ci vediamo? Ci mettemmo a ridere, e quella fu l’ultima volta che ridemmo insieme con un residuo di quella spensieratezza che avevamo avuto in passato senza avere mai saputo di averla. Le nostre strade si erano negli anni separate, ma non i nostri cuori. Vivevamo lontani e ci vedevamo sempre più raramente, a volte anche a distanza di diversi mesi l’una dall’altra. Ma ogni volta, magicamente, riprendevamo il discorso come se l’avessimo interrotto giusto il tempo di una pisciata o di un battito di ciglia. Conosco molte persone con le quali mi accade l’esatto contrario: posso incontrarle anche venti volte in una settimana, e ogni volta ci troviamo a dover affrontare quel pesante strato di ghiaccio che si solidifica più rapidamente di qualsiasi nostro sforzo. La differenza tra la giovinezza e quello che viene dopo, comunque lo si voglia chiamare, è che ad un certo punto improvvisamente ti ritrovi a parlare della tua pressione, dei capelli che ti cadono, del cazzo che non ti tira più, dei bozzi che ti spuntano addosso di qua e di là nel tuo vasto corpo incontrollabile. E del preoccupante colore della tua merda. Ineluttabilmente, il cemento più forte della nostra unione era che siamo sempre stati due ipocondriaci cacasotto, quindi la mia risposta sorpresa al bar era in fondo parte di un gioco delle parti, perché quello era esattamente uno dei nostri argomenti più classici e abituali. Il nostro era un affettuoso esorcismo: lui non poteva pensare che io potessi morire, intendo realmente morire, io non potevo pensare che lui potesse realmente morire. Invece lui aveva già cominciato a morire, anche se ancora nessuno di noi due lo sapeva. Molti dei nostri amici comuni ad un certo punto non hanno più voluto vederlo: volevano ricordarlo com’era una volta, dicevano. A me è successo invece di avere bisogno di rinnovare il suo ricordo ogni giorno. Di avere bisogno di vedere il mio amico e accompagnarlo in quegli ultimi tre mesi, in cui ci siamo visti più volte che nei precedenti cinque anni. Ci sono grosso modo due tipi di persone (o meglio, di atteggiamenti), penso, di fronte alla certezza della morte che sta arrivando. C’è chi si abbandona. E c’è chi lotta. Lui ha lottato con una ferocia che non avrei mai sospettato, e so di dire una cosa quasi blasfema, ma la sua agonia mi è servita, mi ha aiutato a resistere al suo abbandono, e questo, credo, è il motivo per cui avevo così tanto bisogno di vederlo. Mentre moriva giorno dopo giorno io bevevo la sua rabbia di vita come ambrosia. Ora sono qui da solo davanti alla sua tomba, dovrebbe piovere e invece è una giornata fastidiosamente bella. Come un’idiota gli parlo, e mi viene un po’ da ridere ripensando alle cazzate che abbiamo sparato in questi ultimi tre mesi. Tra l’altro abbiamo trovato il coraggio di raccontarci di tutte le donne che ci eravamo fregati a vicenda ai tempi del liceo. E naturalmente ci siamo resi conto che non c’era bisogno poi di tanto coraggio. Parlavamo fitto quasi senza prendere fiato, più spesso parlavo io perché lui si stancava nel parlare ma mai nell’ascoltare, e c’era quel senso di urgenza, chiarissimo anche se mai dichiarato. Ricordo che ogni mattina quando di buon’ora arrivavo in ospedale e entravo nella sua stanza lui mi accoglieva invariabilmente con un sorriso e una domanda: -Dove eravamo rimasti? Anche lunedì scorso è andata così. Non so se aveva bisogno di salutarmi, forse sapeva che io avevo bisogno di salutare lui. Sono entrato e lui mi ha sorriso, come sempre, e come sempre mi ha fatto la domanda che era diventato il nostro rito benaugurale.

sabato 5 gennaio 2013

La scatola da scarpe

Un regalo strano l’ho ricevuto il giorno del mio dodicesimo compleanno. Avevo già avuto quello che desideravo e che mi aspettavo, ma mio padre disse: -Non è finita. Lo disse con un sorriso appena accennato che non riuscii ad interpretare. Guardai mia madre, che mi sembrò stupita. Mi ci gioco le palle che non ne sapeva niente neppure lei. Il mio vecchio si alzò e andò in camera sua. Quando tornò in salotto aveva in mano un pacchetto della grandezza di una scatola da scarpe, avvolto in una carta da regalo rossa e abbellito da un nastro dorato. Non me lo diede, però, e invece si rimise seduto sul divano con il pacchetto in grembo. Per un po’ nessuno disse niente. Io non dicevo niente perché non ci capivo niente, e una delle poche cose che avevo imparato era che quando non ci capisci niente, la cosa migliore è startene zitto e ascoltare. Non ho mai capito granché della vita, devo dire, quindi questa regola mi è stata utile in diverse occasioni. E credo sarebbe molto utile a molta gente. Comunque, dopo un intervallo di tempo piuttosto lungo, mio padre si decise: -Andrea, questo è l’ultimo regalo per il tuo compleanno. E’ un regalo molto prezioso, ma ha una particolarità che necessita di una grande disciplina da parte tua. Qui lasciò scivolare una delle sue irritanti pause alle quali attribuiva un grande effetto retorico, e che invece per me erano semplicemente pallose. Restai zitto, in attesa. Mi fissò dritto negli occhi e con tono solenne continuò: -La particolarità di questo regalo è che tu non devi aprire la scatola fino al giorno in cui arriverai alla mia età. Rapido calcolo: 47-12=35. Cazzo, dovrei stare trentacinque anni senza aprire quella scatola? Ammazza che stronzo, pensai. Lo pensai per la prima volta. Negli anni successivi lo avrei pensato tante altre volte. Ma quella prima volta lo pensai così forte che temetti l’avesse sentito. Per quanto ne sapevo potevo persino averlo detto senza accorgermene. Dal fatto di non essere ribaltato da uno di quei manrovesci che mi assestava di quando in quando con le sue mani enormi, dedussi che non aveva sentito. Ma l’espressione della mia faccia parlava per me. -Ora sei deluso, lo so. Non ti posso svelare niente a proposito del contenuto di questa scatola. L’unica cosa che posso dirti è che qui dentro c’è qualcosa della quale ora non sapresti che fartene, ma che ti sarà enormemente utile quando lo aprirai. Se voleva consolarmi, non ottenne l’effetto desiderato. Rimasi in silenzio, ma confesso che un paio di lacrime mi rigarono le guance. -Capisco che è difficile, Andrea. Ora ti consegnerò il tuo regalo, ma prima di farlo ho bisogno che tu faccia una cosa per me. Devi promettere sul tuo onore che non lo aprirai fino al giorno del tuo quarantasettesimo compleanno. C’erano diverse cose che avevo voglia di fare, alcune delle quali non confessabili, ma certamente non avevo nessuna voglia di formulare una promessa così assurdamente contro natura. Sul mio onore, poi. Ma inaspettatamente una voce che mi sembrava lontanissima, anche se proveniva dalla mia gola, disse: -Lo prometto. E il pacchetto divenne mio. Quando passò dalle grandi mani di mio padre alle mie piccole mani, rimasi stupito dal suo peso. Pensai: una cosa è certa, anche se sembra una scatola da scarpe dentro non ci sono delle scarpe, a meno che non siano delle scarpe di piombo. Ieri ho compiuto 47 anni quasi senza accorgermene. Arriva l’età in cui non c’è molto da festeggiare. Mia madre è morta tre anni fa, mio padre morirà presto. Io sono solo, perché l’unica donna che ho amato veramente e con la quale avrei voluto e potuto vivere desiderava dei figli. Io no. Comunque potesse andare a finire tra noi, uno di noi avrebbe dovuto subire una scelta che non condivideva su un tema molto importante. Così è finita che ci siamo lasciati. Lei ora ha quattro figli, penso e spero che sia contenta. Ogni tanto ci sentiamo, per esempio quando mi chiama per farmi gli auguri di compleanno. Non dimentica mai la data. Anche ieri mi ha telefonato, è così che mi sono ricordato che era il mio compleanno. Non solo, mi ha anche ricordato quanti anni ho compiuto. Io ho un po’ perso il conto, o forse mi fa comodo crederlo. -Quarantasette anni, accipicchia, vecchione. Come ti senti? -Quarantasette? Sei proprio sicura? Non sono quarantasei? -Non ci provare, Andrea. Sono quarantasette. Morto che parla. (L’originalità dell’umorismo non è mai stata una sua dote. Ne aveva delle altre, di doti.) Ci salutammo, e io mi sentivo strano, e mi chiedevo perché mi sentivo così strano. Doveva avere a che fare con il quarantasette, ma non sapevo in che modo. Avete presente la sensazione che si prova quando non riesci a ricordarti il nome di un attore che conosci benissimo? Quella. Il nome è lì, davanti a te, ma non riesci a vederlo, o meglio lo vedi, sai che è lì, ma è come se improvvisamente fosse stato ricoperto da un velo di bambagia. Una sensazione di soffocamento. Poi, improvvisamente come era arrivata, la nebbia si è alzata. E da sotto la nebbia è spuntata la scatola da scarpe. In mezzo c’erano quei trentacinque anni. Senza averlo deciso, cominciai quasi involontariamente a passarli in rassegna. Il ponte pericolante che separa quel bambino da quest’uomo solo e un po’ malinconico è pieno di giorni passati a guardare quella scatola proibita. Per anni è sempre stata con me, a portata di mano. Tortura sublime. Quante notti ho allungato il braccio fino a terra e sotto il letto a controllare che ci fosse, quando mi svegliavo sudato alle due o alle tre di notte. Quanti giorni sono tornato correndo a perdifiato da scuola terrorizzato dalla certezza che non l’avrei ritrovata, e invece era sempre là che mi aspettava. Quanti giorni dei miei successivi compleanni li ho trascorsi in trance a fissare quella scatola del cazzo, senza vedere altro che quella. Infinite volte allora ho maledetto mio padre, infinite volte ho alimentato il mio odio verso di lui, gli ho augurato la morte, me ne sono pentito, e poi gliel’ho augurata di nuovo. In tutti quegli anni, anche se ne ho avuto spesso la tentazione, mai ho seriamente preso in considerazione l’ipotesi di aprirla. Come di solito accade, il motivo era in realtà una combinazione di motivi: parte obbligo morale di mantenere la parola data (il famoso onore), parte terrore superstizioso che se l’avessi aperta prima del tempo sarebbe successo qualcosa di simile a quello che accade quando i nazisti aprono l’arca dell’alleanza alla fine de I predatori dell’arca perduta di Spielberg. Quando infine l’ossessione divenne insopportabile, presi una decisione dolorosa. Non potevo distruggerla o gettarla via, ma dovevo allontanarla da me. Ormai per me era diventata come la Kriptonite verde per Superman. Finì in cantina, poi in soffitta, poi in un’altra cantina. Sempre viaggiando con me nei miei tanti traslochi e non abbandonandomi mai, ma a debita distanza. Poi me ne dimenticai, fino a ieri. Ieri. Avreste dovuto vedermi ieri in cantina, mentre come un pazzo aprivo scatoloni mezzo ammuffiti dall’umidità che si sgretolavano tra le mie mani in un crescendo parossistico mentre la disperazione alimentava la mia furia, e la mia furia accresceva la disperazione. Quando avevo deciso che non l’avrei mai trovata, e avevo cominciato a prendere a calci e pugni il muro scrostato della cantina procurandomi varie abrasioni, la vidi. L’umidità aveva trasformato il rosso vivace della carta in cui era avvolta in un color mattone scuro, sembrava aver subito un processo di invecchiamento simile a quello dei vini d’annata. E dato che l’avevo infilata, secoli prima, in uno scaffale dietro ai vini, aveva finito per mimetizzarsi con essi. Lo so che avrei dovuto tributare la giusta solennità all’apertura della scatola. Dopo tutto erano trentacinque anni che aspettavo questo momento. Ma non è così che vanno le cose. O almeno, non è così che è andata per me. Ho strappato la carta violentemente con le mani sanguinanti e ho sollevato il coperchio. La scatola era piena di sabbia. Ci affondai le mani alla ricerca di qualcosa che potesse essere nascosto lì in mezzo. Niente. Solo sabbia a ricoprire altra sabbia. Il mio regalo tanto atteso. Nonostante l’umidità della cantina, la sabbia si era conservata piuttosto asciutta. Ne presi in mano una bella manciata, e la lasciai scivolare lentamente tra le dita, rapito. La corsia dell’ospedale era deserta, perché io riuscivo sempre ad arrivare quando i parenti degli altri malati se n’erano andati via. Lo trovai nel suo stato di perenne dormiveglia in cui lo teneva la morfina, buon per lui. Socchiuse appena gli occhi quando mi sedetti accanto a lui e gli presi la mano. Parlai sottovoce: -Ciao papà. Ieri ho compiuto quarantasette anni, sai? Così ho aperto il tuo regalo. Lui sollevò lo sguardo e mi fissò. Era già da tempo che aveva smesso di parlare. -Ho capito, papà. Grazie. Volevo dirti solo questo. Lui accennò un sorriso e quasi impercettibilmente annuì. Poi chiuse gli occhi.

sabato 10 marzo 2012

IL PARADOSSO (Un romanzo scritto male)

PROLOGO
(Conversazione tra l’autore e l’editore)

-Non so...
-Cosa?
-Non so, c’è qualcosa che non mi convince.
-Cosa?
-Non so dirti esattamente cosa...
-Provaci, non abbiamo più molto tempo.
-Il titolo è bello. Mi piace. Semplice, incisivo, attraente.
-Allora?
-Non so, Marco. E’ che forse... insomma... non mi sento tanto sicuro...insomma ho un problema...vabbè, lo dico: ho un problema con il sottotitolo.
-Lo sapevo. Lo sapevo, ci avrei giurato che alla fine ti saresti cagato sotto. Sei un codardo di merda.
-Marco, scusa, e se la gente lo prende sul serio? Mi sembra un approccio un po’ negativo. Non è proprio il massimo dal punto di vista marketing.
-Ne abbiamo parlato mille volte: si regge tutto su quel sottotitolo. Se manca quello, va tutto a farsi fottere. Eri d’accordo anche tu, brutto stronzo.
-Lo so, lo so, Marco. Ma ci ho ripensato, capita. E poi...
-E poi?
-L’ho fatto vedere anche a mia moglie. Mi fido molto di mia moglie, su queste cose. E lei sai cos’ha detto?
-Sto provando a immaginarlo, ma preferisco se me lo dici tu.
-Ha detto: “Se scrivete Un romanzo scritto male, la gente penserà che è un libro scritto male e non lo comprerà.
-Lorenzo, vai a cagare. E manda a cagare anche la tua signora da parte mia, per favore.

martedì 12 luglio 2011

Storytelling in comunicazione

Questa non è una storia come tutte le altre. Questa è una storia sul raccontare storie. Sull'appassionarsi al raccontare storie, imparare a raccontarle, acquisire gli skill e gli strumenti necessari. In una parola: sull'avventura del comunicare. Qui c'è il Master in Copywriting che l'Università IULM ha avviato per la prima volta, e di cui sarò il coordinatore didattico. Nel link tutte le informazioni e il programma. Per iscriversi c'è tempo fino al 21 ottobre.

lunedì 20 giugno 2011

Rimozione

Non so resistere a una bella rimozione. Così quando sono fortunato e mi capita, non me la lascio di certo scappare. E’ uno spettacolo raro quanto sublime.
Vedere come il carro attrezzi si avvicina lentamente alla sua vittima, un’auto parcheggiata in un posto riservato ai portatori di handicap. Come il vigile, seduto accanto al posto di guida, scende e prima di tutto scrive la multa, poi con cura sistema il foglietto sul parabrezza dell’auto poi appoggia bene il tergicristalli sopra la notifica della multa in modo che non cada.
Se ci pensate, dal punto di vista pratico, tutto ciò è inutile, dal momento che l’auto verrà rimossa e con essa la multa.
Ma questa non è una procedura. Questa è una liturgia.
E’ la sacra liturgia del rispetto delle leggi. E’ uno dei momenti più alti di una democrazia in azione. Non è sopruso, non è arbitrio. E’ la vera libertà. Quella libertà di tutti che per non essere conculcata necessita del fatto che tutti rispettino le regole. E’ l’essenza del vivere sociale, ciò che infine ci distingue dalle bestie e da Capezzone (Filiberto Capezzone, un mio compagno di liceo che tirava sempre le caccole addosso alla prof. di matematica quando essa scriveva alla lavagna).

lunedì 13 giugno 2011

Le chiavi di casa

-Ciao, non ho riconosciuto il numero, da dove stai chiamando?
-Da una cabina telefonica. Anzi per l’esattezza da un Posto telefonico pubblico, non hai idea di cosa ho dovuto fare per trovarne uno. Ormai sono introvabili. Ti ricordi di quando le cabine del telefono erano a ogni angolo di strada?
-Sì, e di quando c’era la carta carbone, e le video cassette e il Carousel della Kodak, adesso non cominciare ti prego.
-Ok, ok, non ti scaldare. Ritarda l’accensione delle polveri ancora per un attimo.
-Che vuoi dire? (pausa) Ora che ci penso, perché non mi hai chiamato dal cellulare?
-E’ una storia lunga. Hai tempo e voglia di sentirla?
-Né l’uno né l’altra, veramente. Ma mi sa che mi toccherà ascoltarla comunque la tua storia. Cerca almeno di non tirarla troppo per le lunghe come tuo solito. Dunque? Te l’hanno rubato?
-Magari.
-Perché magari?
-Ne uscirei meglio. Un po’ meglio ai tuoi occhi intendo. Vittima innocente di un sopruso.
-Che palle con questa storia, Marco. Lo sapevo che finiva così. Se ti va di dirmi cosa è successo, dimmelo. Altrimenti facciamola finita subito. Ne ho le palle piene del tuo vittimismo.
-Lo sai quella specie di tombino che c’è proprio davanti al portone di casa? Quel cazzo di tombino di marmo con le fessure che mi ha sempre spaventato dal primo giorno che siamo arrivati lì?
-Non è un tombino. Altrimenti non ci sarebbero le fessure, e ho idea che se fosse un tombino non sarei qui a sentire questa storia. Allora, come ha fatto il tuo cellulare a finire dentro una fessura? L’avevi in mano e ti è scivolato, come ti scivola tutto da quelle mani di burro?
-Capisci perché ho risposto magari quando mi hai chiesto se me l’avevano rubato? Comunque no, era in tasca e mi è scivolato fuori dalla tasca. Che sfiga.
-E adesso dimmi perché non mi hai chiamato da casa, e sei andato a cercare un posto telefonico pubblico, ormai quasi introvabile.
-(silenzio)
-Ci sei ancora Marco? Guarda che non ho tutta la sera. Siamo appena tornati dal mare, quei due devono ancora fare la doccia e io non ho ancora cominciato a preparare la cena.
-Ha a che fare con il motivo per il quale mi è scivolato il telefono dalla tasca.
-Cioè?
-Non avevo il telefono in mano perché avevo le chiavi di casa, in mano. Stavo per aprire il portone. Quelle, mi sono scivolate dalle mani di burro.
-Non ci credo.
Mi sono buttato giù di colpo nel tentativo di prenderle al volo, e nel movimento mi è uscito il telefono dalla tasca. Le chiavi in una fessura, il telefono in un’altra.
-Non ci credo.
-E’ così. Ora puoi cominciare a sparare. Sono pronto.
-Non ci credo. Non puoi essere così coglione. E adesso?
-Dimmelo tu, adesso. Il palazzo è vuoto. Milano è vuota, non c’è un cane che mi possa ospitare, sono partiti tutti. E comunque non è che mi ricordi i numeri di telefono di tutti a memoria. Il biglietto del treno è in casa, la valigia è in casa, e io non ci posso entrare.
-Ok, mi fa veramente schifo buttare i nostri soldi così, ma l’unica cosa che puoi fare è andarti a cercare un albergo e poi domani mattina ricomprare il biglietto direttamente alla stazione. Come se navigassimo nell’oro, in questo momento.
-Non posso.
-Anche a me fa schifo buttare così i soldi che non abbiamo, come ho detto, ma non vedo altra soluzione.
-No, è che non posso proprio… avevo voglia di un gelato, così ho preso solo cinque euro e sono uscito. Senza portafoglio. Quindi senza documenti, senza carte di credito. E meno male che non ho trovato nemmeno una gelateria aperta, così ho risparmiato i soldi del gelato e ti ho potuto telefonare…
-(silenzio)
-Ci sei ancora, Raffaella? Ora non è che possa pensare di chiederti di mollare tutto e partire per venire a soccorrermi, dalla Puglia fino a Milano, con due bambini, il 13 agosto. Lo so perfettamente. E’ solo che mi sembra che stia andando tutto in malora, dentro la mia testa. Mi sembra di non riuscire a fare più niente. Che tutto mi sia precluso. Che tutto sia per me un ostacolo insormontabile. Ho paura di tutto. Come questa storia delle chiavi. E del telefono. Ogni volta che mi avvicinavo a casa ero ossessionato da quelle cazzo di fessure, pensavo cazzo, pensa se mi cadessero le chiavi lì dentro, magari in un momento che Raffaella non c’è, magari in un momento in cui il palazzo è vuoto, tipo verso ferragosto. E più ci pensavo più le mie mani tremavano, si facevano di burro. E stasera mi tremavano talmente forte che è successo. Non so neanche perché ti ho telefonato. Forse solo per sentire la tua voce. Per avere un po’ di conforto. Mi capisci?
-La mia pazienza e la mia comprensione sono esaurite, coglione. Vai a chiedere rifugio alla Caritas o all’Opera di San Francesco. Buonanotte. (click)

domenica 16 gennaio 2011

Il primo del 2011 (Caldo e freddo)

C'è un po' di sudore sotto il tuo piede, e mi piace. Sì, mi piace, perché mi dice, mi ricorda che questo calduccio ci protegge. Mi sveglio piano piano con una grande sensazione di beatitudine. Il mondo è fuori e noi siamo qui. Niente ci può toccare, niente ci può ferire. Siamo al sicuro, io e te. Ma tu chi sei? Così al buio, così all'improvviso, non saprei rispondere. Per quanti sforzi faccia non riesco a ricordarmi chi sei. Non ricordo dove ti ho incontrata né quando, non ricordo di averti parlato, né di averti scopata, ma evidentemente tutto questo è successo, visto che siamo insieme in questo letto. Che mal di testa, devo aver bevuto troppo anche se non ricordo nemmeno questo. Ho ancora sonno, e vorrei tanto girarmi dall'altra parte per godermi ancora un po' di riposo. Tocco di nuovo il tuo piede con il mio, e sento che è leggermente meno caldo di prima, anzi direi quasi freddo. Cerco di non rendermene conto, mentre il dolore alla bocca dello stomaco riprende a farsi sentire. Giocherello con il tuo piede inerte ancora per qualche minuto. Poi mi decido ad accendere la luce, e devo trattenermi per non vomitare. Ora ricordo tutto.