martedì 5 maggio 2009

Quello che so

Sedicesima puntata

39.
Come al solito, il vecchio condizionatore non voleva saperne di partire. Come al solito, il dottor Calogero Moiano da Benevento gli assestò un potente calcione in un punto ben preciso, facilmente individuabile perché portava il segno di tutti i precedenti calcioni. Come al solito, il vecchio condizionatore partì sferragliando. Calogero Moiano allentò la cravatta, sollevò la cornetta del telefono e disse:
“Ok, possiamo cominciare.”
Dopo alcuni secondi entrò la donna, scortata dal giovane assistente di Moiano. Era sorridente e rilassata. La prima notte in carcere della sua vita non sembrava averla minimamente impressionata.
Anche se non è da escludere che la signora avrebbe potuto persino gradire, non ci fu bisogno di alcuna tortura per farla parlare. Quello che aveva deciso di raccontare lo raccontò tranquillamente. Quello che doveva rimanere nascosto, non ci sarebbe stata nessuna tortura capace di portarlo alla luce.
Moiano le indicò una sedia.
“Si accomodi. Posso offrirle una caffè?”
“Grazie. Dottor Moiano, prima che lei cominci a farmi le sue domande, posso farne io una a lei?”
“Prego.”
“Quando le avete messe, le nuove telecamere?”
Il dottor Moiano la guardò in silenzio.
“E’ così che mi avete scoperto, no?”
“Non sarei tenuto a risponderle, ma le rispondo. Le abbiamo installate il giorno dopo la morte di Francesco M. Non pensavo che avrebbero potuto esserci utili. Invece...”
“Che stupida a non averci pensato. Mi sentivo così sicura di me stessa perché mi muovevo nel mio ambiente, conoscevo l’esatta ubicazione di tutte le telecamere di controllo. Quello che si dice l’eccesso di sicurezza.”
“Doveva essere maledettamente importante recuperare quel libro, ma soprattutto quello che c’era dentro. Così importante da giustificare qualche rischio. Dopo averci dormito sopra, ora mi vuol dire cosa c’era, nel libro?”
“E’ un libro molto inspiring, come diciamo noi pubblicitari. Un libro che avevo voglia di rileggere, e non trovavo più la mia copia. Così ho pensato di farmelo prestare da Francesco. Tanto a lui non serviva più.”
“Non credo che così faremo tanta strada.”
Calogero Moiano aprì un cassetto della sua scrivania, e tirò fuori il diario di Francesco M. Lo appoggiò davanti alla donna, rivolto verso di lei.
“Io un’idea me la sono fatta. Lo riconosce?”
La donna non rispose. Calogero Moiano aprì il quaderno e lo sfogliò. Poi lo lasciò aperto davanti alla donna.
“Nota qualcosa di strano?”
“Manca una pagina.”
“E non una pagina qualsiasi.”
“No. Sembra proprio mancare l’ultima pagina.”
Ci fu qualche attimo di silenzio. Poi la donna decise che era arrivato il momento di smettere di giocare.
“Non la troverà mai. Si metta il cuore in pace.”
“Ci sono centinaia di sue impronte digitali su questo quaderno, e dappertutto nell’ufficio di Francesco M.”
“Certo. Ma sul corpo? Sul corpo di Francesco avete trovato le mie impronte?”
Calogero Moiano scosse lentamente il capo.
“Perché io Francesco non l’ho toccato. Ammetto che la notte in cui è stato ucciso, dopo che è stato ucciso, io sono andata nel suo ufficio a fare il mio lavoro. A pulire. Ho strappato quella pagina per portarla via, ma quando stavo per uscire dall’ufficio ho sentito dei rumori nel corridoio. Così l’ho nascosta dentro quel libro pensando di recuperarla in un secondo momento.“
“E’ tutto?”
“E’ tutto quello che sono disposta a raccontarle, dottor Moiano.”

40.
Calogero Moiano fissava la chiave senza decidersi a infilarla nella serratura. Gli era diventato ormai insopportabile rientrare a casa. Stava pregando intensamente che sua moglie fosse andata a giocare a bridge con le amiche, al cinema, a teatro, a una delle sue intollerabili feste di beneficenza, a scopare con qualcun altro. Dovunque, basta che non fosse in casa. Finita la preghiera, si decise. La casa era immersa nel buio. Era stato esaudito. Sul tavolo in cucina c’era un foglietto, con su scritto: “Pizza nel congelatore.”
Moiano se ne andò a letto velocemente, temendo che la donna potesse rientrare trovandolo ancora alzato.

domenica 3 maggio 2009

UN GIORNO, DUE RAGAZZE, DUE VECCHI

Sono le nove del mattino, è il giorno che precede la primavera, e il treno è appena partito.
Laura è seduta, un libro nuovo nuovo tra le mani, in un vagone completamente vuoto. I pendolari hanno affollato il treno precedente, e così per Laura è stato facile trovare un vagone deserto dove i pensieri del mattino abbiano spazio sufficiente per vagabondare senza ostacoli.

Sono le nove del mattino, è il giorno che precede la primavera, e Valeria non deve andare al lavoro. Prepara la sua colazione con calma, e si accuccia sul divano con il televisore sintonizzato sul canale numero sette. Oggi, pensa, mentre infila nella tazza un biscotto bianco e nero, potrebbe trascorrere un po’ di tempo con sua nonna.

Osserva le casette rosa che macchiettano i campi scorrere oltre il finestrino, Laura, e immagina le vite degli inquilini che le popolano, cercando di indovinarne il volto, il nome e la professione in base alla forma degli edifici. Il libro, tra le sue mani, è aperto a pagina sette.

Valeria scende le scale, abita al secondo piano di una villetta rosa che spunta come un fungo tra i campi. Al primo vivono sua madre e suo padre, mentre la nonna materna se ne sta solitaria al pian terreno. Valeria stringe tra le mani una scatola di cioccolatini: sua madre gli impedirebbe di regalarli alla nonna, ma questa mattina sua madre non c’è.

“La vuoi una caramella?” dice il vecchio sedendosi proprio di fronte a Laura. Il suo alito puzza di marcio e di alcol. Laura lo osserva frugarsi le tasche della giacca marrone, risponde “No, grazie” ma spera che il vecchio capisca “Mi lasci in pace, la prego”.

“Grazie, ma lo sai che la mamma non vuole!” dice la nonna. Dice proprio “la mamma”, anche se in realtà si tratta di sua figlia. “Un cioccolatino o due non ti manderanno mica all’ospedale” dice Valeria con gli occhi rivolti al cielo. “Oggi non lavori?” domanda la nonna, seduta al tavolo della cucina, scartando il primo cioccolatino.

“Senti” dice il vecchio senza tirare fuori le mani dalle tasche “se mi dici il tuo nome ti do una caramella”. Il taglio che nasconde dietro la barba si inarca ad imitazione di un sorriso. Laura cerca con gli occhi la presenza di qualcun altro tra i sedili, invano: “Le ho detto che non la voglio”.

Valeria e sua nonna sono sedute al tavolo della cucina, una di fronte all’altra. Tra un cioccolatino e l’altro parlano dell’arrivo della primavera, dei peschi che sono già in fiore, e dei prezzi del Conad, sempre più alti. Ogni tanto qualche parola proveniente dal televisore, rimasto acceso in salotto, riesce a farsi strada fino alla cucina, e s’infila nei loro discorsi.

Laura valuta il tempo che manca alla prossima fermata. Proprio nel momento in cui, raccolte le sue forze, è decisa ad alzarsi e infilarsi subito in un altro vagone, il vecchio le afferra un braccio fulmineo: “Dove vai?” le dice con quel taglio che si ritrova al posto di una bocca “Non vorrai mica andartene prima che ti abbia dato la mia caramella!”

A quanto pare sta andando in onda uno di quei programmi orribili, dove le persone mettono in piazza le loro tragedie, vere o presunte. Sembra che una donna stia raccontando il dramma di una violenza subita. Ma Valeria e sua nonna non si lasciano distrarre che per un istante. “Voglio darti una cosa” dice ad un certo punto la nonna, illuminata dalla luce della primavera.

Laura tira, cerca di divincolarsi, ma il vecchio ha più forza di lei. “Vieni qui!” le dice, tirandola a sé. “No!” grida Laura, “Mi lasci!” grida anche, “Mi lasci subito!” grida chiudendo gli occhi.

“Chiudi gli occhi” dice la nonna. Valeria ubbidisce e sente che le viene messo in mano qualcosa di freddo. Quando riapre gli occhi scopre nel suo palmo una fede. “Nonna.”, dice, perché è l’unica parola che le viene in mente. “Me l’aveva regalata il nonno, è stato un matrimonio lungo e sereno. Da oggi in poi la terrai tu”. “Ma nonna!” dice Valeria, di nuovo senza sapere cosa aggiungere.
“Spero che ti regali tanti giorni come questo” dice la nonna. Valeria sente gli occhi che le diventano umidi.

Laura piange, piange e grida aiuto. Grida aiuto e finalmente, con uno strattone, riesce a liberarsi dal vecchio. Scatta come una molla e corre via singhiozzando, mentre il treno rallenta placidamente fino a fermasi. Il vecchio raccoglie il libro e se lo ficca in tasca.