mercoledì 27 agosto 2008

Quello che so

(Tragicommedia ambientata nel magico mondo della pubblicità)
Prima Puntata



1.
Verso le otto di mattina di un giovedì già assolato di luglio, la signora Giovanna Bonfanti, che faceva le pulizie presso l’agenzia di pubblicità Altoprofilo, entrò nella stanza del direttore creativo e si trovò di fronte un mattatoio. Le sue grida attirarono le poche persone presenti in agenzia a quell’ora, perlopiù colleghi della signora Bonfanti impegnati nelle stanze vicine a svuotare cestini e portacenere.
Tutti corsero silenziosamente sulla moquette grigia e si ammassarono all’ingresso della grande stanza illuminata dal sole, ma nessuno entrò. Era chiaro per tutti che non c’era niente da fare, oltre che chiamare la polizia. Più tardi una cosa che colpì chi raccolse le prime testimonianze era l’insistenza sulla stessa immagine, che ricorreva nelle parole di tutti: spontaneamente veniva fuori la prima percezione che ciascuno dei testimoni aveva avuto affacciandosi sul luogo del delitto, ed era una percezione cromatica, un’immagine invasa da due colori, il bianco e il rosso, così forti da annullare tutto il resto.

2.
Per quanto riguarda il rosso potete forse indovinare di cosa si trattasse, il bianco invece era il bianco dell’ufficio del direttore creativo. Dal grande tavolo per riunioni posto al centro della stanza fino al minuscolo temperamatite, passando per la scrivania e l’abat-jour da pavimento (verycool verytrendy), tutto era rigorosamente di quel colore. Interamente bianco era anche l’abbigliamento del direttore creativo, dalla testa ai piedi, e forse per simpatia con il suo modo di vedere il mondo (dovremmo forse dire il suo modo di colorare il mondo) persino i suoi capelli castani stavano cominciando lentamente qua e là ad assumere una colorazione consona al background. Quando è stato sgozzato e sventrato come un maiale il nostro direttore creativo, Francesco M., aveva appena compiuto quarantacinque anni, ed era da poco entrato in quella fase della sua vita professionale in cui ci si può godere il frutto dei propri sforzi, si possono tirare un po’ i remi in barca, come si dice, e stare un po’ a guardare gli altri che si dannano l’anima e si fanno il culo come tante bestie per un briciolo di successo, un attimo di notorietà, un ridicolo aumento di stipendio, una pacca sulla spalla data da una mano armata di coltello. Chiunque, al posto di Francesco M., avrebbe fatto così, ma non Francesco M.
Francesco M. non era il tipo da tirare i remi in barca, non era fatto per sedersi sulla riva del fiume aspettando di vedersi passare davanti il cadavere del suo nemico (i cadaveri dei suoi molti nemici). Lui traeva piacere dall’ucciderli (metaforicamente) con le sue mani, i suoi nemici. Lui non poteva alzarsi nemmeno una mattina dal suo letto bianco accanto al suo comodino bianco nella sua camera bianca con le persiane bianche senza pensare che anche oggi avrebbe concesso almeno tre interviste, rilasciato opinioni e dichiarazioni, posato per un paio di foto, vinto almeno un premio creativo, acquisito almeno un nuovo cliente. “Il giorno che i riflettori accesi su di me si spegneranno, io morirò.” pensava.
E come abbiamo visto, sbagliava.

3.
Fin dall’inizio il difficile per la polizia non fu trovare qualche pista, qualche movente, qualche sospetto. Ma piuttosto il contrario. Innanzitutto non ci fu una sola persona, con l’unica eccezione della madre di Francesco M., che si dichiarasse dispiaciuta per la sua morte. Anzi, tutti si dichiararono molto contenti, e espressero incondizionata ammirazione per l’autore del delitto. Più d’uno arrivò a dire frasi tipo: “Come vorrei essere stato io !” che era al contempo una rivendicazione di innocenza e una manifestazione di adesione morale. Alle domande su che tipo fosse il defunto, le risposte più gentili erano: “un fottuto figlio di puttana”, “una merda”, “uno stronzo”, “un megalomane”, “un pallone gonfiato”, “un testa di cazzo” e così via. Ad un certo punto i detectives, furbi, pensarono di concentrare la loro attenzione unicamente su coloro che avessero espresso apprezzamenti positivi sul defunto, ma siccome la signora M., madre di Francesco M., era disabile, viveva quasi perennemente a letto o su di una sedia a rotelle e non usciva di casa da almeno sei anni, capirono ben presto che non era una strada molto promettente. A proposito invece di moventi, si configurò subito un rarissimo caso di eccesso di moventi. Ma andiamo per ordine, e per raccontare al meglio i moventi dobbiamo fare un piccolo flashback. Pronti con l’effetto sonoro? Allora via.

lunedì 25 agosto 2008

Vermi

Dalla sala parto arrivano urla strazianti, e mi chiedo che cazzo ci faccio qui che cazzo ci faccio qui e ancora che cazzo ci faccio qui. Avevo detto voglio assistere come si dice scusi mi fa un margarita per favore? E ora mi trovo in questo casino.

Le urla animali di donne sventrate di quando in quando si calmano, si sospendono in un attimo di silenzio e poi altre urla si guadagnano il centro del palco, grida disperate io sono al mondo cazzo datemi il mio spazio io esisto io sono l’essere assoluto nessuno come me.

Quella testa piena di peluria sanguinolenta che lotta come un titano per venire fuori, quegli occhi che non ti vedono ma ti guardano con sguardo indagatore accusatore che cavolo mi hai fatto chi sei tu chi sono io dove sono? Quella torsione del busto che spezza ossa di pollo d’allevamento nello sforzo di essere sbattuti in questo cazzo d’inferno troppo piccolo già troppo pieno di stronzi.

Fico.

Quando arriverà il momento so già che le terrò la mano e detergerò il sudore dalla sua fronte, tieni duro amore, ci siamo, ancora un piccolo sforzo e ce l’hai fatta, sei bravissima, tutto quel campionario di stronzate ripetute mille volte preparandosi, non sapendo che è inutile prepararsi, che non ci si può preparare.

Ma il momento non arriva, il travaglio sembra interminabile, e intanto il cellulare segnala 3 chiamate non risposte.

Sento chi è ma lo so già prima si fare il numero della segreteria telefonica. E’ l’agenzia.
Il cliente più importante ha dato oggi un nuovo brief per una campagna urgentissima che deve essere presentata domani e uscire dopodomani.

“Guarda, lì c’è una lucciola.”
Effettivamente devo dire che c’era una lucciola, solitaria e un po’ traballante nel suo volo, ma era una lucciola perdìo, e non so quanti anni erano che non ne vedevo più.
“Dicono che fra qualche anno non vedremo più le stelle perché ci sarà sempre più luce che viene su dalla valle. Tanta luce da oscurare il cielo. Ma per un po’ le possiamo ancora vedere, e l’ultima stella se ne andrà con l’ultima lucciola.”

Nei locali privati dell’arcidiocesi di Boston, sua eminenza Joseph O’Connor, nunzio apostolico negli Stati uniti, emette un grugnito eiaculando nella bocca del suo chierichetto preferito, un pel di carota irlandese di dodici anni.
Puoi andare ora, Sean, mormora il prelato, con una mano paterna arruffando i capelli del bambino, poi si abbandona sulla poltrona e accende la televisione.

Tutte le stazioni stanno trasmettendo le stesse immagini: una delle Twin Towers di Manhattan che va a fuoco. Poi l’aereo che entra nella seconda torre, il fumo nero, i manichini che cadono nel vuoto, infine le torri che crollano.
Con il pisello floscio e un rimasuglio di sperma sulla punta, il cardinale O’Connor si copre il volto con le mani e inizia a piangere, e così alcuni pezzetti di Kleenex che aveva appiccicati alle dita gli si depositano sulla fronte e lì rimarranno.

Amen.

Fra il primo e il secondo aereo sulle torri sono passati 17 minuti. In questi 17 minuti alcuni broker dotati di sangue freddo riescono a vendere tutto o quasi quello che avevano in mano e salvano molti culi, a partire dal proprio.
Dopo il secondo aereo diventa chiaro che si tratta di terrorismo, e non ci resta più niente da salvare.
Né culo né anima.

Tugguarda un po’ cosa vado a pensare, e intanto il telefono silenziato vibra come un serpente a sonagli muto vicino all’uccello che un po’ s’imbarzottisce, tugguarda un po’ che cazzo deve succedere mentre sono seduto sotto il cartello “Nell’area dell’ospedale i cellulari vanno tenuti spenti.”
Non voglio non posso non è bello non sta bene mentre quello sta lottando la grande battaglia, e anche per lei non è che sia una passeggiata.

Tuttavia…
…nonostante la nausea, nonostante i dolori sempre più forti, nonostante le crisi sempre più ravvicinate, nonostante la certezza che non vedrò crescere i miei figli, nonostante tutto questo esistono ancora delle giornate limpide, in cui riesco a guardare l’orizzonte fino a laggiù, scorgo le cime delle montagne oltre Milano, e mi sembra bello e sorrido.

Allora riesco (per un poco) a perdonarmi di averci messo tanto, a fare tutto quel niente che ho fatto. Riesco persino a compiacermi per essere riuscito a finire questa casa, anche se proprio all’ultimo momento. (Questa casa che non abiterò per gran parte di una vita che non mi sarebbe dispiaciuto vivere un altro poco.)
Comunque in tempo per sedermi un grappolo di mattine come questa con il mio scialle appoggiato sulle spalle e una faccia che per fortuna non sono costretto a guardare. E guardare verso dove lo sguardo può correre, con in mano un caffè che sembra acqua.

Presto, bisogna fare presto. Muoviti ragazzo, vieni fuori che le cavallette avanzano, gli squali pregustano le gambe dei pescatori del Mar Baltico. Non farò in tempo a insegnarti molto, ma chissà, forse a dire rabarbaro con un solo unico rutto magari, qualcosa insomma.

Immagino la carne. Vedo la carne, rosso-scura tendente al nero, li sento camminare silenziosi, mangiare a sazietà, crescere più veloci di te, amore mio, è una gara appassionante, sebbene il finale sia scontato.

E allora perché guardo il telefono, perché ascolto i messaggi, perché le mie mani aprono l’iBook e lo accendono, scrivono una mail indirizzata a quelli che non dormono mai, perché mi lascio trasportare in quel posto lontano dove mi fanno muto e sordo?