lunedì 25 agosto 2008

Vermi

Dalla sala parto arrivano urla strazianti, e mi chiedo che cazzo ci faccio qui che cazzo ci faccio qui e ancora che cazzo ci faccio qui. Avevo detto voglio assistere come si dice scusi mi fa un margarita per favore? E ora mi trovo in questo casino.

Le urla animali di donne sventrate di quando in quando si calmano, si sospendono in un attimo di silenzio e poi altre urla si guadagnano il centro del palco, grida disperate io sono al mondo cazzo datemi il mio spazio io esisto io sono l’essere assoluto nessuno come me.

Quella testa piena di peluria sanguinolenta che lotta come un titano per venire fuori, quegli occhi che non ti vedono ma ti guardano con sguardo indagatore accusatore che cavolo mi hai fatto chi sei tu chi sono io dove sono? Quella torsione del busto che spezza ossa di pollo d’allevamento nello sforzo di essere sbattuti in questo cazzo d’inferno troppo piccolo già troppo pieno di stronzi.

Fico.

Quando arriverà il momento so già che le terrò la mano e detergerò il sudore dalla sua fronte, tieni duro amore, ci siamo, ancora un piccolo sforzo e ce l’hai fatta, sei bravissima, tutto quel campionario di stronzate ripetute mille volte preparandosi, non sapendo che è inutile prepararsi, che non ci si può preparare.

Ma il momento non arriva, il travaglio sembra interminabile, e intanto il cellulare segnala 3 chiamate non risposte.

Sento chi è ma lo so già prima si fare il numero della segreteria telefonica. E’ l’agenzia.
Il cliente più importante ha dato oggi un nuovo brief per una campagna urgentissima che deve essere presentata domani e uscire dopodomani.

“Guarda, lì c’è una lucciola.”
Effettivamente devo dire che c’era una lucciola, solitaria e un po’ traballante nel suo volo, ma era una lucciola perdìo, e non so quanti anni erano che non ne vedevo più.
“Dicono che fra qualche anno non vedremo più le stelle perché ci sarà sempre più luce che viene su dalla valle. Tanta luce da oscurare il cielo. Ma per un po’ le possiamo ancora vedere, e l’ultima stella se ne andrà con l’ultima lucciola.”

Nei locali privati dell’arcidiocesi di Boston, sua eminenza Joseph O’Connor, nunzio apostolico negli Stati uniti, emette un grugnito eiaculando nella bocca del suo chierichetto preferito, un pel di carota irlandese di dodici anni.
Puoi andare ora, Sean, mormora il prelato, con una mano paterna arruffando i capelli del bambino, poi si abbandona sulla poltrona e accende la televisione.

Tutte le stazioni stanno trasmettendo le stesse immagini: una delle Twin Towers di Manhattan che va a fuoco. Poi l’aereo che entra nella seconda torre, il fumo nero, i manichini che cadono nel vuoto, infine le torri che crollano.
Con il pisello floscio e un rimasuglio di sperma sulla punta, il cardinale O’Connor si copre il volto con le mani e inizia a piangere, e così alcuni pezzetti di Kleenex che aveva appiccicati alle dita gli si depositano sulla fronte e lì rimarranno.

Amen.

Fra il primo e il secondo aereo sulle torri sono passati 17 minuti. In questi 17 minuti alcuni broker dotati di sangue freddo riescono a vendere tutto o quasi quello che avevano in mano e salvano molti culi, a partire dal proprio.
Dopo il secondo aereo diventa chiaro che si tratta di terrorismo, e non ci resta più niente da salvare.
Né culo né anima.

Tugguarda un po’ cosa vado a pensare, e intanto il telefono silenziato vibra come un serpente a sonagli muto vicino all’uccello che un po’ s’imbarzottisce, tugguarda un po’ che cazzo deve succedere mentre sono seduto sotto il cartello “Nell’area dell’ospedale i cellulari vanno tenuti spenti.”
Non voglio non posso non è bello non sta bene mentre quello sta lottando la grande battaglia, e anche per lei non è che sia una passeggiata.

Tuttavia…
…nonostante la nausea, nonostante i dolori sempre più forti, nonostante le crisi sempre più ravvicinate, nonostante la certezza che non vedrò crescere i miei figli, nonostante tutto questo esistono ancora delle giornate limpide, in cui riesco a guardare l’orizzonte fino a laggiù, scorgo le cime delle montagne oltre Milano, e mi sembra bello e sorrido.

Allora riesco (per un poco) a perdonarmi di averci messo tanto, a fare tutto quel niente che ho fatto. Riesco persino a compiacermi per essere riuscito a finire questa casa, anche se proprio all’ultimo momento. (Questa casa che non abiterò per gran parte di una vita che non mi sarebbe dispiaciuto vivere un altro poco.)
Comunque in tempo per sedermi un grappolo di mattine come questa con il mio scialle appoggiato sulle spalle e una faccia che per fortuna non sono costretto a guardare. E guardare verso dove lo sguardo può correre, con in mano un caffè che sembra acqua.

Presto, bisogna fare presto. Muoviti ragazzo, vieni fuori che le cavallette avanzano, gli squali pregustano le gambe dei pescatori del Mar Baltico. Non farò in tempo a insegnarti molto, ma chissà, forse a dire rabarbaro con un solo unico rutto magari, qualcosa insomma.

Immagino la carne. Vedo la carne, rosso-scura tendente al nero, li sento camminare silenziosi, mangiare a sazietà, crescere più veloci di te, amore mio, è una gara appassionante, sebbene il finale sia scontato.

E allora perché guardo il telefono, perché ascolto i messaggi, perché le mie mani aprono l’iBook e lo accendono, scrivono una mail indirizzata a quelli che non dormono mai, perché mi lascio trasportare in quel posto lontano dove mi fanno muto e sordo?

Nessun commento: