mercoledì 4 giugno 2008

Lorenzo, forse

Mi è stato di enorme insegnamento, e non sono neanche certo di ricordare il suo nome.
Si chiamava Lorenzo, se non sbaglio, e a quindici anni non ancora compiuti era alto un metro e ottantasei.
In occasione delle partite del torneo di pallavolo fra i licei di Roma, si cominciavano a notare sempre più frequentemente i talent-scout delle squadre di A1 e A2 che senza dare tanto nell’occhio annusavano l’aria con espressione fintamente distaccata.
Fra i liceali della capitale Lorenzo era già un idolo, per la sua schiacciata micidiale e il suo carattere gioioso e guascone.
Suo padre osservava gli inviati delle squadre professioniste, sognava ad occhi aperti per Lorenzo un futuro radioso, e fumava in silenzio passeggiando sul bordo del campo.
Il radioso futuro e la luminosa carriera che aspettavano lì dietro l’angolo furono spazzati via in un momento quando il padre di Lorenzo, in un fatale attimo di distrazione, chiuse la mano del figlio nella portiera della macchina, troncandogli di netto l’intero indice e oltre metà del medio della mano destra, la mano con cui Lorenzo usava schiacciare.

La prima partita dopo il terribile incidente si notarono tre cose: l’assenza dei talent-scout i quali non avevano più nulla da annusare; l’assenza del padre di Lorenzo; ma soprattutto la presenza di Lorenzo a bordo campo con l’enorme fasciatura che gli copriva le tre dita abbondanti rimaste attaccate.
Certo stava male, certo aveva sofferto e avrebbe ancora sofferto, certo avrebbe avuto nostalgia della serie A, ma quello che si capì fin da subito fu che insieme alle dita di Lorenzo, insieme alla sua folgorante carriera appena annunciata, incredibilmente (per me) non se n’era volato via anche il suo carattere.

Lorenzo non smise mai di seguire appassionatamente la pallavolo, con lo stesso gioioso entusiasmo di sempre, e alla fine divenne allenatore di una squadretta che veleggiava stentatamente tra la serie B e il fondo della A2. Una mediocre carriera che lo rese felice e soddisfatto di sé.

E non smise mai di tentare, senza il minimo successo, di consolare suo padre per quell’attimo di distrazione. Di questa parte della storia a dire il vero so ben poco, ma quel che è certo è che il padre di Lorenzo non si fece mai più vedere né sul campo di pallavolo, né davanti alla scuola, né lo si vedeva più circolare nel quartiere.
Dicono poi che cominciò a bere e che passava intere giornate a guardare ininterrottamente i filmati delle partite del torneo di pallavolo che aveva registrato con la sua cinepresa.
Non so se crederci o meno, fatto sta che cinque anni dopo morì, chi dice per un tumore al fegato, chi dice di cirrosi epatica, e il giorno del funerale fu l’unico giorno in cui vidi Lorenzo piangere.

martedì 3 giugno 2008

Gli Innocenti

Hanno occhi buoni, sorrisi larghi e irresistibili, i sorrisi dei bambini. Perché sono bambini.
Ma hanno bruciato case, ucciso uomini, donne e altri bambini, mozzato mani e intere braccia, gambe e piedi, nasi, orecchie, quello che capitava, come in un lotto dell’orrore.
Uno di loro racconta con un sorriso divertito: “Scrivevamo su diversi foglietti di carta naso, gamba, mano, orecchio, eccetera, poi mettevamo tutti i foglietti di carta in un sacchetto, mischiavamo e poi estraevamo un bigliettino: quello che c’era scritto sopra noi lo tagliavamo.”

Dove Eravamo Rimasti

Ricordo che eravamo seduti al bar a chiacchierare del più e del meno, e a sorseggiare un aperitivo, quando lui mi disse:
-Sono un po' preoccupato per il colore della mia merda.
-Va bene che ci conosciamo da quando eravamo in terza media, ma ti pare il caso di parlarmi della tua merda dopo quasi un anno che non ci vediamo?
Ci mettemmo a ridere, e quella fu l’ultima volta che ridemmo insieme di gusto con un residuo di quella spensieratezza che avevamo avuto in passato, senza mai sapere di averla.
Le nostre strade si erano separate, ma non i nostri cuori. Vivevamo lontani e ci vedevamo sempre più raramente, a volte anche a distanza di diversi mesi l’una dall’altra. Ma ogni volta, magicamente, continuavamo il discorso come se l’avessimo interrotto giusto il tempo di una pisciata o di un battito di ciglia. Conosco molte persone con le quali mi accade l’esatto contrario: posso incontrarle anche venti volte in una settimana, e ogni volta ci troviamo a dover rompere quel massiccio strato di ghiaccio che si solidifica più rapidamente di qualsiasi nostro sforzo.
La differenza tra la giovinezza e quello che viene dopo è che ad un certo punto ti ritrovi improvvisamente a parlare della pressione, dei capelli che cadono, del cazzo che non ti tira più, dei bozzi che ti spuntano addosso di qua e di là. E del colore della tua merda.
E’ ineluttabile, e uno dei cementi più forti della nostra unione speciale è che siamo tutti e due dei tremendi ipocondriaci cacasotto, e quindi la mia risposta sorpresa al bar era in fondo parte di un gioco delle parti, perché quello era esattamente uno dei nostri argomenti più classici e abituali.
Il nostro era un esorcismo: lui non pensava che io potessi morire, intendo realmente morire, e io non pensavo che lui potesse morire.

Invece lui aveva già cominciato a morire, ma nessuno di noi due lo sapeva. Molti dei nostri amici comuni ad un certo punto non hanno più voluto vederlo: volevano ricordarlo com’era una volta, dicevano. A me è successo invece di avere bisogno di vederlo, di accompagnarlo in quegli ultimi tre mesi, in cui ci siamo visti più volte che nei precedenti cinque anni. Ci sono grosso modo due tipi di persone, penso. Di fronte alla certezza della morte che sta arrivando, c’è chi si abbandona. E c’è chi lotta. Lui ha lottato con una ferocia che non avrei mai sospettato, e so di dire una cosa quasi blasfema, ma la sua agonia mi è servita, mi ha aiutato a resistere, e questo è il motivo per cui avevo così bisogno di vederlo.

Ora sono rimasto solo davanti alla sua tomba, dovrebbe piovere e invece è una giornata bellissima, quasi fastidiosa. Come uno scemo gli parlo, e mi viene un po’ da ridere ripensando alle cazzate che abbiamo sparato in quei tre mesi. Tra l’altro abbiamo trovato il coraggio di raccontarci di tutte le donne che ci eravamo fregati a vicenda ai tempi del liceo. E naturalmente ci siamo resi conto che non c’era bisogno poi di tanto coraggio.
Parlavamo fitto senza quasi mai interromperci, più spesso parlavo io perché lui si stancava di parlare ma non di ascoltare, e c’era quel senso di urgenza, chiarissimo anche se non detto. Ricordo che ogni mattina quando di buon’ora arrivavo in ospedale e entravo nella sua stanza lui mi accoglieva invariabilmente con un sorriso e una domanda:
-Dove eravamo rimasti?

Anche lunedì scorso è andata così. Non so se aveva bisogno di salutarmi, forse sapeva che io avevo bisogno di salutare lui. Sono entrato e lui mi ha sorriso, come sempre, e come sempre mi ha fatto la domanda che era diventato il nostro rito benaugurale. Poi ha chiuso gli occhi.

Lettere

Dice:
"Sta ricominciando a scrivere male, con quella sua calligrafia a zampa di gallina, vuol dire che sta meglio. Vedi, questa lettera è della fine di maggio, una delle ultime prima dell'infarto. Questa invece l'ha scritta il 22 giugno, venti giorni dopo l'infarto. E questa l'ha scritta, vediamo, il 10 luglio, una settimana fa. Guarda, guarda quest'ultima, che schifo di calligrafia -dice con un sorriso- confrontala con quella di maggio. Vedi come si somigliano le due calligrafie? Certo, quest'ultima non è ancora perfetta, perfettamente incomprensibile come quella dei bei tempi, però sta migliorando, cioè peggiorando. Mi segui? Voglio dire che sta tornando piano piano ad essere il modo di scrivere dell'uomo che conosco e che amo, di quello che non guarda in faccia nessuno, che non si preoccupa più di tanto di farsi capire. Una calligrafia da dottore, da professionista, da uomo di potere. Ma il confronto con la lettera del 22 giugno potrà aiutarti a capire meglio. Guarda qui, che pena. Le Ti, guarda le Ti, tutte dritte e precise, e le O tonde tonde come fatte col compasso. Una scrittura lenta, sofferta, quella di un bambino debole e spaventato. Da allora c'è stato un netto peggioramento, cioè miglioramento."
Poi alza lo sguardo, e fissandomi negli occhi per la prima volta dice sottovoce con aria smarrita:
"Cosa ne pensi, ce la farà?"

Le Stagioni Intermedie

Conservare tutto è come non conservare niente.

Più me lo ripeto e meno ne prendo atto, e intanto i miei cassetti si riempiono di roba che non avrò mai il tempo né la voglia di guardare più.

Più il tempo si fa corto, più senti l'impossibilità di fare qualunque cosa, che sia leggere, parlare, guardare un film, ascoltare la musica, mangiare e non nutrirsi, scopare, più senti quindi l'esigenza di porre un argine al suo dominio, al dominio del tempo, più quindi cerchi di sottrargli qualcosa conservandolo, nascondendolo, infilandolo in un cassetto, in una cartellina, in una busta sulla quale poi metti delle belle etichette, più in verità fai il suo gioco, perché la somma algebrica di tutti questi reperti è sempre zero.

Come tutto il resto dell'umanità, di mestiere faccio il collezionista di ricordi. E' il mestiere universale. Anche chi pensa di fare lo spazzino, l'attore, l'astronauta, l'assassino, il bancario, in realtà di mestiere fa questo.

"Vuoi venire su da me che ti mostro la mia collezione di ricordi?"