martedì 16 dicembre 2008

Uno stupido comò

La discussione si trasformò lentamente in lite quasi senza che se ne accorgessero. Si partiva sempre da piccole cose, inezie. Quel giorno, poco dopo pranzo, il tema era lo spostamento di un mobile da un punto all'altro della casa. Anzi, da un punto all'altro della stessa stanza. Lei voleva spostare il mobile, lui no. Lei ben presto lo accusò di non voler fare niente per la casa, ma non parlava della casa, parlava di lei. Lui ammetteva la sua pigrizia, ma ripeteva stancamente che era fatto così e che voleva essere accettato così. Lei disse che per lui fare anche la più piccola cosa era una sofferenza, e che la vita così non era sopportabile, né per lei né per lui. In breve, partendo da uno stupido comò, erano arrivati a mettere in dubbio i fondamenti del loro rapporto.
Questo tipo di discussioni si ripeteva con una frequenza sempre più allarmante. In quei momenti, ciascuno dei due era solo al mondo, era vittima, incompreso, triste, intollerante crudele carnefice. In quei momenti la complicità era dimenticata, l'allegria sepolta, e le ragioni della convivenza diventavano oscure. Lei uscì di casa senza dire dove andava né quando sarebbe tornata. Lui non glielo chiese. Era convinto che non l'avrebbe più rivista, anche se ciò era improbabile.
In questo modo, credendola perduta, cominciò a provare nostalgia di lei, e il livore piano piano si dissolse, sostituito dal ricordo dei suoi lati più belli, di tutte le cose che era certo gli sarebbero mancate. Credendola perduta, piangendola come fosse morta, ritrovò la tenerezza e poté finalmente, per un momento, abbandonare le sue difese pesanti come armature. Mentre gli occhi si inumidivano, si sentì solo e generoso, e provò una sensazione di pace.

mercoledì 26 novembre 2008

Quello che so

(Tragicommedia ambientata nel magico mondo della pubblicità)
Terza Puntata



7.
Nella stanza 162 del commissariato di Milano Centro, il dott. Calogero Moiano, Giudice delle Indagini Preliminari presso la prima sezione del tribunale di Milano, sbadigliò in modo così scomposto che quasi si slogò la mascella. L’orologio a muro segnava le undici e trentacinque, ma era rotto da almeno due anni. Moiano guardò il suo orologio da polso e si accorse che si era fermato.
“E’ possibile che non si riesca a sapere che cazzo di ore sono?” domandò a se stesso, giacché era solo nella stanzetta davanti a tre scatoloni di materiale sequestrato sul luogo del delitto. Si alzò barcollando e si avviò per il corridoio deserto in cerca di un caffè.

8.
“Allora, io direi di scrivere: Francesco, gli amici della Altoprofilo ti sono vicini in questo momento terribile della tua vita…”
“Quale vita, scusa? Non mi sembra molto vivo.”
“Più morto che vivo, direi.”
“E poi, ‘gli amici della Altoprofilo’, dai, mi sembra quasi una presa per il culo.”
“Concordo.”
“Vabbè, allora scrivetevelo voi ‘sto cazzo di telegramma, teste di cazzo, che a me manco mi va!”
“E dai Ste, non ti incazzare, che sarà mai!”
Nonostante l’argomento all’ordine del giorno fosse l’organizzazione di un funerale, l’atmosfera fra i quattro membri superstiti del consiglio di amministrazione dell’agenzia di Pubblicità Altoprofilo era singolarmente lieve, a tratti ilare.
Stefano Massa, Davide Procaccini, Richard Young e Roberto Benati ridevano come bimbi, tappandosi la bocca e facendosi sshhh! l’uno con l’altro per paura di farsi sentire dalle segretarie.

9.
Appurato con una telefonata al 161 che erano le tre e mezza di notte, o di mattina a seconda dei punti di vista, il dottor Calogero Moiano si recò al cesso per pisciare e soprattutto per sciacquarsi la faccia. Alla sua immagine impresentabile riflessa nello specchio confessò un momento di incertezza:
“Ma siamo sicuri che lo vogliamo proprio trovare questo assassino?” Era una domanda retorica, naturalmente. L’ovvia risposta era “No, che non lo vogliamo trovare, manco per il cazzo. E soprattutto nessuno, nel vasto mondo là fuori, vuole che lo troviamo. Tutti stanno facendo il tifo per lui, o lei, e si farebbero in quattro per aiutarlo. Ma il punto è un altro: noi dobbiamo trovarlo, anche se ne faremmo volentieri a meno. Punto. Fine del discorso.”
Uscendo dal cesso il dott.Moiano si sentiva un po’ meglio, la testa più leggera e le idee più chiare, anche se non si era accorto di aver dimenticato abbassata la patta dei pantaloni.
Poco male, tanto non c’era nessuno in giro per accorgersene.

lunedì 22 settembre 2008

Quello che so

(Tragicommedia ambientata nel magico mondo della pubblicità)
Seconda Puntata


4.
Movente numero 1: le donne.
Chiamatelo tombeur de femmes, chiamatelo puttaniere, chiamatelo molestatore, insomma chiamatelo come vi pare ma avete capito di cosa stiamo parlando. Quando era un ragazzo aveva una sana ossessione per la fica, e un’altrettanto ossessiva mancanza di scrupoli, ma non era ancora per lui, o almeno non interamente, una questione di potere. Quando cominciò la scalata, cominciò anche a cambiare il suo rapporto con le donne. Scoprì ben presto che non si divertiva più tanto a scoparle, quanto piuttosto a conquistarle, meglio ancora a possederle. Per poi naturalmente esibirle come trofei. Tutto il bello stava in questo, in quel momento prezioso in cui poteva finalmente vantarsi delle sue conquiste con il mondo intero.
Infine, in un gioco sempre più sfrenato di scollamento tra realtà e fantasia, verità e finzione, arrivò anche il momento in cui cominciò a vantarsi di conquiste inesistenti, puramente fittizie, e quanto più le donne rifiutavano le sue avances sempre più pesanti e volgari, tanto più lui raccontava di essere un perseguitato e che doveva fuggire lui alle avances di frotte di femmine infoiate. Le più fortunate potevano semplicemente tirargli un manrovescio e mandarlo in culo, ma lui si divertiva di più con quelle sfortunate. Vale a dire, con quelle che non potevano sfuggirgli, quelle sulle quali esercitava un potere: le sue sottoposte. Fossimo stati in America, Francesco M. sarebbe stato accusato di sexual harassment e probabilmente processato, quasi sicuramente licenziato. Se questo è il movente della sua morte, dobbiamo concludere che a quest’ora, se fossimo stati in America, Francesco M. sarebbe indigente e scornato, ma vivo.
Invece non siamo in America ma in Italia, e questo tipo di cose non vengono punite, siamo più lassisti e meno bacchettoni, e il risultato è che Francesco M. non più di quarantottore fa è stato ritrovato sdraiato supino sul suo splendido tavolo bianco con le viscere lucenti che arrivavano fino a terra, e aveva già cominciato a puzzare. Ironia della sorte.
Ma non sappiamo se questo è il movente.

5.
Movente numero 2: i soldi.
Per far fronte ai debiti sempre più grossi che la sua vita in corsia di sorpasso gli aveva procurato, Francesco M. decise di farsi corrompere. Niente di più facile. Ostacoli morali non ne aveva, ma qualora ne avesse avuti sarebbe bastato ricordare a se stesso che nel suo mondo facevano tutti così, e gli ostacoli si sarebbero immediatamente liquefatti. Come si potevano se no spiegare le ville al mare e in montagna che tutti i manager e i direttori creativi delle agenzie di pubblicità si erano costruiti in pochi anni, forse con gli stipendi? Andiamo, chi sono io? L’unico tonno in un mare popolato di squali?
Ma, come dicevamo prima, Francesco M. da perfetto eroe dei nostri tempi era un uomo per il quale le preoccupazioni di ordine morale erano una insopportabile zavorra, lacci e lacciuoli, pastoie burocratiche, Roma ladrona. Così fece trapelare cautamente ma con chiarezza nell’ambiente delle case di produzione cinematografica, le strutture che realizzano gli spot pubblicitari, il messaggio che lui sarebbe stato disposto a farsi ‘ungere’. Il meccanismo era semplice: ogni volta che una idea di campagna pubblicitaria viene approvata dal cliente, bisognava a quel punto realizzare lo spot. A questo punto viene aperta una gara fra diverse case di produzione, solitamente tre, per l’assegnazione del budget di produzione. Ogni casa di produzione presenta all’agenzia pubblicitaria il regista con il quale intenderebbe realizzare il filmato e unitamente ad esso un preventivo di produzione. A questo punto è l’agenzia che va dal cliente, il quale ha la decisione definitiva ovviamente, ma l’agenzia esprime una raccomandazione a proposito di quale è la scelta più giusta per produrre quel determinato spot. La raccomandazione dovrebbe essere guidata dalla qualità creativa, non necessariamente dal preventivo più vantaggioso in termini economici. Voglio dire che capita a volte che il preventivo vincente non sia quello più basso, se l’impianto produttivo più convincente è un altro, un regista evidentemente migliore di un altro. E normalmente la raccomandazione dell’agenzia è accolta, o quantomeno ascoltata e valutata con attenzione.
Ora, basta fare un piccolo intervento in questo meccanismo dicendo: io direttore creativo raccomando te casa di produzione e ti faccio vincere la gara per la realizzazione di questo spot in cambio di una percentuale prestabilita del valore del budget, cioè del valore del preventivo. Ricordiamo che per realizzare uno spot pubblicitario si può partire da qualche centinaio di migliaia di euro fino ad oltrepassare il milione, a seconda della complessità del progetto. Il gioco è fatto, semplice e indolore. Per qualche anno Francesco M. si trovò bene con questo sistema, facendo il suo bene e quello dei suoi compari a capo delle più importanti case di produzione italiane. Poi divenne ingordo, e cominciò a sgarrare. Innanzitutto cominciò a pretendere il pagamento anticipato della sua percentuale, ma soprattutto si fece pagare da tutte le case di produzione coinvolte in una gara, poi naturalmente solo una di loro vinceva la gara. A quelli che a questo punto gli chiedevano la restituzione della mazzetta anticipata, lui rispondeva di volta in volta cose vaghe o in maniera irritata, ma sempre promettendo che si sarebbero rifatti alla prossima produzione. Solo che come è facile intuire, ad ogni produzione, per ogni creditore soddisfatto c’erano due nuovi creditori incazzati, in un gioco che diventò rapidamente incontrollabile.
Ma non sappiamo se neanche questo è il movente.

6.
Movente numero 3: l’invidia.
Una cosa che capita nel mondo della pubblicità (probabilmente capita anche in altri ambienti, uno per tutti la politica, ma nella pubblicità è una regola ferrea) è che più fai schifo, più hai successo. Infatti, Francesco M. aveva un enorme successo, sia presso i clienti sia presso i colleghi dell’ambiente pubblicitario. I direttori marketing e gli amministratori delegati, e poi giù giù fino ai più oscuri ridicoli portaborse, amano essere blanditi, sedotti, amano essere incantati dall’affabulazione del direttore creativo: in poche parole amano essere presi per il culo. E prendere per il culo la gente era esattamente la cosa che Francesco M. sapeva fare meglio di qualunque altra, così tenendo in pugno un gran numero di persone, e soprattutto di clienti. Probabilmente nella sua vita non aveva mai avuto un’idea originale, ma in quanto a spumeggianti esibizioni teatrali davanti a platee di clienti adoranti, non aveva rivali.
C’era tuttavia anche l’altra faccia del successo. Le agenzie di pubblicità pullulavano di creativi frustrati e uggiosi che vivevano nella perenne rimasticazione di una sorda invidia nei confronti del nostro eroe, colpevole di aver raggiunto qualcosa che loro non avrebbero mai potuto raggiungere. E come spesso capita, il grado di invidia cresceva in rapporto inversamente proporzionale con il decrescere di qualunque forma di talento. I più livorosi erano in assoluto quelli che forse si rendevano oscuramente conto di non possedere né il più piccolo talento creativo, né la benché minima capacità affabulativa, che è pur sempre una forma di talento. In altre parole gente in grado di produrre soltanto campagne pubblicitarie di merda, esattamente come Francesco M. Con la differenza che Francesco M. la sua merda riusciva sempre a venderla ai clienti, e i clienti erano entusiasti di mangiare la merda che Francesco M. aveva confezionato per loro.
Fra questi colleghi di Francesco, fra questi personaggi insicuri di sé, o meglio sicuri della propria mediocrità senza appello, incapaci di spiegare i trionfi quotidiani di qualcuno che sentivano accomunato nella loro stessa mediocrità, messi di fronte giorno dopo giorno alla prova lampante del loro fallimento, si annidavano centinaia di potenziali sospetti di omicidio.
Ma non sappiamo se neanche questo è il movente.

mercoledì 27 agosto 2008

Quello che so

(Tragicommedia ambientata nel magico mondo della pubblicità)
Prima Puntata



1.
Verso le otto di mattina di un giovedì già assolato di luglio, la signora Giovanna Bonfanti, che faceva le pulizie presso l’agenzia di pubblicità Altoprofilo, entrò nella stanza del direttore creativo e si trovò di fronte un mattatoio. Le sue grida attirarono le poche persone presenti in agenzia a quell’ora, perlopiù colleghi della signora Bonfanti impegnati nelle stanze vicine a svuotare cestini e portacenere.
Tutti corsero silenziosamente sulla moquette grigia e si ammassarono all’ingresso della grande stanza illuminata dal sole, ma nessuno entrò. Era chiaro per tutti che non c’era niente da fare, oltre che chiamare la polizia. Più tardi una cosa che colpì chi raccolse le prime testimonianze era l’insistenza sulla stessa immagine, che ricorreva nelle parole di tutti: spontaneamente veniva fuori la prima percezione che ciascuno dei testimoni aveva avuto affacciandosi sul luogo del delitto, ed era una percezione cromatica, un’immagine invasa da due colori, il bianco e il rosso, così forti da annullare tutto il resto.

2.
Per quanto riguarda il rosso potete forse indovinare di cosa si trattasse, il bianco invece era il bianco dell’ufficio del direttore creativo. Dal grande tavolo per riunioni posto al centro della stanza fino al minuscolo temperamatite, passando per la scrivania e l’abat-jour da pavimento (verycool verytrendy), tutto era rigorosamente di quel colore. Interamente bianco era anche l’abbigliamento del direttore creativo, dalla testa ai piedi, e forse per simpatia con il suo modo di vedere il mondo (dovremmo forse dire il suo modo di colorare il mondo) persino i suoi capelli castani stavano cominciando lentamente qua e là ad assumere una colorazione consona al background. Quando è stato sgozzato e sventrato come un maiale il nostro direttore creativo, Francesco M., aveva appena compiuto quarantacinque anni, ed era da poco entrato in quella fase della sua vita professionale in cui ci si può godere il frutto dei propri sforzi, si possono tirare un po’ i remi in barca, come si dice, e stare un po’ a guardare gli altri che si dannano l’anima e si fanno il culo come tante bestie per un briciolo di successo, un attimo di notorietà, un ridicolo aumento di stipendio, una pacca sulla spalla data da una mano armata di coltello. Chiunque, al posto di Francesco M., avrebbe fatto così, ma non Francesco M.
Francesco M. non era il tipo da tirare i remi in barca, non era fatto per sedersi sulla riva del fiume aspettando di vedersi passare davanti il cadavere del suo nemico (i cadaveri dei suoi molti nemici). Lui traeva piacere dall’ucciderli (metaforicamente) con le sue mani, i suoi nemici. Lui non poteva alzarsi nemmeno una mattina dal suo letto bianco accanto al suo comodino bianco nella sua camera bianca con le persiane bianche senza pensare che anche oggi avrebbe concesso almeno tre interviste, rilasciato opinioni e dichiarazioni, posato per un paio di foto, vinto almeno un premio creativo, acquisito almeno un nuovo cliente. “Il giorno che i riflettori accesi su di me si spegneranno, io morirò.” pensava.
E come abbiamo visto, sbagliava.

3.
Fin dall’inizio il difficile per la polizia non fu trovare qualche pista, qualche movente, qualche sospetto. Ma piuttosto il contrario. Innanzitutto non ci fu una sola persona, con l’unica eccezione della madre di Francesco M., che si dichiarasse dispiaciuta per la sua morte. Anzi, tutti si dichiararono molto contenti, e espressero incondizionata ammirazione per l’autore del delitto. Più d’uno arrivò a dire frasi tipo: “Come vorrei essere stato io !” che era al contempo una rivendicazione di innocenza e una manifestazione di adesione morale. Alle domande su che tipo fosse il defunto, le risposte più gentili erano: “un fottuto figlio di puttana”, “una merda”, “uno stronzo”, “un megalomane”, “un pallone gonfiato”, “un testa di cazzo” e così via. Ad un certo punto i detectives, furbi, pensarono di concentrare la loro attenzione unicamente su coloro che avessero espresso apprezzamenti positivi sul defunto, ma siccome la signora M., madre di Francesco M., era disabile, viveva quasi perennemente a letto o su di una sedia a rotelle e non usciva di casa da almeno sei anni, capirono ben presto che non era una strada molto promettente. A proposito invece di moventi, si configurò subito un rarissimo caso di eccesso di moventi. Ma andiamo per ordine, e per raccontare al meglio i moventi dobbiamo fare un piccolo flashback. Pronti con l’effetto sonoro? Allora via.

lunedì 25 agosto 2008

Vermi

Dalla sala parto arrivano urla strazianti, e mi chiedo che cazzo ci faccio qui che cazzo ci faccio qui e ancora che cazzo ci faccio qui. Avevo detto voglio assistere come si dice scusi mi fa un margarita per favore? E ora mi trovo in questo casino.

Le urla animali di donne sventrate di quando in quando si calmano, si sospendono in un attimo di silenzio e poi altre urla si guadagnano il centro del palco, grida disperate io sono al mondo cazzo datemi il mio spazio io esisto io sono l’essere assoluto nessuno come me.

Quella testa piena di peluria sanguinolenta che lotta come un titano per venire fuori, quegli occhi che non ti vedono ma ti guardano con sguardo indagatore accusatore che cavolo mi hai fatto chi sei tu chi sono io dove sono? Quella torsione del busto che spezza ossa di pollo d’allevamento nello sforzo di essere sbattuti in questo cazzo d’inferno troppo piccolo già troppo pieno di stronzi.

Fico.

Quando arriverà il momento so già che le terrò la mano e detergerò il sudore dalla sua fronte, tieni duro amore, ci siamo, ancora un piccolo sforzo e ce l’hai fatta, sei bravissima, tutto quel campionario di stronzate ripetute mille volte preparandosi, non sapendo che è inutile prepararsi, che non ci si può preparare.

Ma il momento non arriva, il travaglio sembra interminabile, e intanto il cellulare segnala 3 chiamate non risposte.

Sento chi è ma lo so già prima si fare il numero della segreteria telefonica. E’ l’agenzia.
Il cliente più importante ha dato oggi un nuovo brief per una campagna urgentissima che deve essere presentata domani e uscire dopodomani.

“Guarda, lì c’è una lucciola.”
Effettivamente devo dire che c’era una lucciola, solitaria e un po’ traballante nel suo volo, ma era una lucciola perdìo, e non so quanti anni erano che non ne vedevo più.
“Dicono che fra qualche anno non vedremo più le stelle perché ci sarà sempre più luce che viene su dalla valle. Tanta luce da oscurare il cielo. Ma per un po’ le possiamo ancora vedere, e l’ultima stella se ne andrà con l’ultima lucciola.”

Nei locali privati dell’arcidiocesi di Boston, sua eminenza Joseph O’Connor, nunzio apostolico negli Stati uniti, emette un grugnito eiaculando nella bocca del suo chierichetto preferito, un pel di carota irlandese di dodici anni.
Puoi andare ora, Sean, mormora il prelato, con una mano paterna arruffando i capelli del bambino, poi si abbandona sulla poltrona e accende la televisione.

Tutte le stazioni stanno trasmettendo le stesse immagini: una delle Twin Towers di Manhattan che va a fuoco. Poi l’aereo che entra nella seconda torre, il fumo nero, i manichini che cadono nel vuoto, infine le torri che crollano.
Con il pisello floscio e un rimasuglio di sperma sulla punta, il cardinale O’Connor si copre il volto con le mani e inizia a piangere, e così alcuni pezzetti di Kleenex che aveva appiccicati alle dita gli si depositano sulla fronte e lì rimarranno.

Amen.

Fra il primo e il secondo aereo sulle torri sono passati 17 minuti. In questi 17 minuti alcuni broker dotati di sangue freddo riescono a vendere tutto o quasi quello che avevano in mano e salvano molti culi, a partire dal proprio.
Dopo il secondo aereo diventa chiaro che si tratta di terrorismo, e non ci resta più niente da salvare.
Né culo né anima.

Tugguarda un po’ cosa vado a pensare, e intanto il telefono silenziato vibra come un serpente a sonagli muto vicino all’uccello che un po’ s’imbarzottisce, tugguarda un po’ che cazzo deve succedere mentre sono seduto sotto il cartello “Nell’area dell’ospedale i cellulari vanno tenuti spenti.”
Non voglio non posso non è bello non sta bene mentre quello sta lottando la grande battaglia, e anche per lei non è che sia una passeggiata.

Tuttavia…
…nonostante la nausea, nonostante i dolori sempre più forti, nonostante le crisi sempre più ravvicinate, nonostante la certezza che non vedrò crescere i miei figli, nonostante tutto questo esistono ancora delle giornate limpide, in cui riesco a guardare l’orizzonte fino a laggiù, scorgo le cime delle montagne oltre Milano, e mi sembra bello e sorrido.

Allora riesco (per un poco) a perdonarmi di averci messo tanto, a fare tutto quel niente che ho fatto. Riesco persino a compiacermi per essere riuscito a finire questa casa, anche se proprio all’ultimo momento. (Questa casa che non abiterò per gran parte di una vita che non mi sarebbe dispiaciuto vivere un altro poco.)
Comunque in tempo per sedermi un grappolo di mattine come questa con il mio scialle appoggiato sulle spalle e una faccia che per fortuna non sono costretto a guardare. E guardare verso dove lo sguardo può correre, con in mano un caffè che sembra acqua.

Presto, bisogna fare presto. Muoviti ragazzo, vieni fuori che le cavallette avanzano, gli squali pregustano le gambe dei pescatori del Mar Baltico. Non farò in tempo a insegnarti molto, ma chissà, forse a dire rabarbaro con un solo unico rutto magari, qualcosa insomma.

Immagino la carne. Vedo la carne, rosso-scura tendente al nero, li sento camminare silenziosi, mangiare a sazietà, crescere più veloci di te, amore mio, è una gara appassionante, sebbene il finale sia scontato.

E allora perché guardo il telefono, perché ascolto i messaggi, perché le mie mani aprono l’iBook e lo accendono, scrivono una mail indirizzata a quelli che non dormono mai, perché mi lascio trasportare in quel posto lontano dove mi fanno muto e sordo?

lunedì 14 luglio 2008

1943

Porto il nome di uno zio partigiano, morto in un campo di concentramento durante l’ultima guerra.
Non l’ho mai conosciuto, e di questa cosa conservo una memoria vaga e sempre più lontana.
Quando morirò, questa cosa semplicemente non esisterà più.

martedì 24 giugno 2008

In macchina

Cammino (in macchina) incolonnato lungo una provinciale sconosciuta cammino sì cammino perché ci muoviamo tutti solo di alcuni metri e poi ci fermiamo per intere mezzore la pioggia ha allagato la strada e dietro un enorme camion io come dentro un tunnel senza vedere davanti a me quello che succede è ignoto non so (non vedo e non posso scegliere) se frenare accelerare superare pazientare smadonnare strombazzare e ci vuol poco perché mi manchi il respiro un niente e i vestiti mi stanno stretti la cintura di sicurezza stringe le mani stringono il volante il sedile è bollente il portafoglio nella tasca di dietro dei pantaloni mi si sta stampando sul culo il sudore scende sento la sua puzza che impregna i vestiti e tutto questo perché non riesco a vedere davanti è assurdo e allora mi dico stai calmo ragiona cosa vuoi che sia (sei in coda come tutti ora su questa provinciale del cazzo sotto la pioggia) è vero potevi fare l'altra strada ma ora sei qui e cosa ci vuoi fare devi solo calmarti ma è inutile inutile perché fra tante macchine proprio un Tir dovevo beccare che mi soffoca la vista e mi toglie il respiro cosa ho fatto per meritare questo io sono innocente (almeno in parte) e comunque questa pena è smisurata rispetto a qualunque peccato abbia commesso ecco sento i piedi cominciare a muoversi da soli come code di lucertola mozzate come gatti spiaccicati in autostrada che si agitano già morti in un penoso riflesso condizionato e intanto la vista si annebbia le forze mi abbandonano il pensiero svanisce resta solo un enorme (nero) culo di Tir che inghiotte tutti i miei sensi e non c'è niente oltre questo anche se provo a girare prima a destra poi a sinistra gli occhi c'è solo il nero nero assoluto e alla fine il terrore è padrone e io non esisto più sento in lontananza come fossero a chilometri estremità che non mi appartengono i piedi e le mani darsi da fare e un rombo furente e lo scarto laterale e faccio ancora in tempo a vedere oltre il buio finalmente la luce fortissima che arriva benvenuta come la fine dell'incubo e basta.

lunedì 9 giugno 2008

Irreperibile

L'aereo è una biblioteca, la biblioteca è un aereo. La biblioteca e l'aereo sono un ponte.
Due posti così diversi, ma con così tante cose in comune. (Una cosa in comune, a dire il vero, ma importantissima.) Un tempo tutto loro. Un tempo sospeso. Un tempo fermo fra due abissi di fluire nevrotico.
Quando abbandoni la luce del giorno, il traffico, i clacson delle macchine e la puzza di smog per attraversare il portone di legno intarsiato della biblioteca Casanatense in Roma stai salendo su quel ponte e non vuoi raggiungere l'altra riva, incominci a muoverti molto lentamente come nel film Nike con Michael Jordan che cattura lo spazio di tempo quasi immobile nella città che assiste al lancio di un pallone verso il canestro. Dalla mano di Michael Jordan al canestro c'è un ponte di tempo indisturbato, pienamente goduto. (L'unico pienamente goduto).
Così quando abbandoni il braccio pneumatico del terminal e sali su quel luogo extraterritoriale, un luogo che non appartiene a nessun luogo, c'è in qualche modo la stessa sacralità della biblioteca. Ti siedi nella tua poltrona, ti accomodi sul ponte sospeso fra due pezzi di mondo che continuano a correre come pazzi mentre il tuo tempo comincia a rallentare. L'aereo rulla sulla pista, acquista velocità, e il tuo tempo rallenta sempre più. L'aereo raggiunge la velocità massima, il punto di non ritorno, decolla, e il tuo tempo finalmente, magicamente si ferma. Più lungo sarà il volo, più tempo guadagnerai.
E' una bugia, un fatale errore di prospettiva pensare che i lunghi viaggi transoceanici da un continente all'altro siano una perdita di tempo. Al contrario, mentre ai due punti estremi della linea del viaggio c'è la consunzione del tempo fisico che si brucia inutile in riunioni, telefonate, discussioni, umiliazioni, code in macchina, insomma nella vita di tutti i giorni, all'interno dello spazio irraggiungibile in cui ti trovi c'è il tempo per leggere, dormire, pensare, guardare il cielo e le nuvole e le stelle e la notte, non fare niente, insomma per vivere. (cfr. l’inesauribile miniera di sapienza costituita dall’orsetto di pezza Winnie the Pooh, per il quale ‘non fare niente’ equivale esattamente a ‘vivere’.)
Nella biblioteca la protezione del tempo immobile è spirituale, filosofica. Essa è il presupposto stesso dell'esistenza della biblioteca. Questo luogo nasce per salvare qualcosa (i libri, le storie, la conoscenza, le passioni) dalla distruzione operata dal tempo che passa di volta in volta sotto forma di tarme, inquisizione, nazisti, venditori di spazi di Publitalia. E quando ci entri senti che per quell'ora, quelle due o tre ore che rimarrai lì dentro sarai salvo anche tu, assediato forse ma salvo, ti senti partecipe e beneficiario di quell'opera meritoria. Sei in un luogo antico circondato da cose antiche, cose sopravvissute ai secoli che ancora ti raccontano delle storie, entri in un libro e poco dopo la mano che ti artiglia il cuore allenta la sua presa e si allontana, tanto sa che alla lunga vincerà, quindi può anche andare fuori ad aspettarti con calma.
Così nell'aereo la protezione del tempo immobile è fisica, tecnologica. Principalmente dovuta a quel fatale errore di prospettiva, al fatto che la maggior parte della gente là fuori, quelli che ti aspettano impazienti ai due lati della linea, i padroni del tuo tempo esterno, seduti in una sala riunione con dei lucidi già caricati sulla lavagna luminosa, considera questo tempo che stai vivendo, il tempo dello spostamento, un tempo perduto. Perduto per loro, guadagnato per te.
Se sei mai entrato in una biblioteca non puoi non aver notato una cosa straordinaria. Generalmente si trovano nel centro delle città, circondate dal traffico e dal rumore. Eppure dentro c'è un silenzio assoluto, irreale.
Così se hai volato almeno una volta su un aereo abbastanza nuovo, e non hai avuto la sfortuna di sederti proprio in fondo accanto ai motori, non avrai potuto fare a meno di notare il silenzio inatteso che regna all'interno, considerando il fracasso che gli aerei fanno da fuori, un silenzio rotto solo da un timido costante ronzìo di fondo, che sollecita il raccoglimento, la riflessione, infine il sonno e l'oblìo.

Oggi Sposi

Massimo e Sabina si amano da sei anni, e hanno deciso di sposarsi. Le famiglie sono d’accordo, e si comincia a discutere dei dettagli: il ristorante, la lista degli invitati, l’abito da sposa, quelle cose lì insomma.
Lui lavora in periferia di Piacenza, in un’officina meccanica ben avviata che appartiene allo zio Francesco. Lei fa la cassiera in un supermercato del centro. Per il momento hanno deciso che continueranno a lavorare tutti e due, poi se arriveranno dei figli si vedrà. (Sabina dice ‘si vedrà’ ma in realtà non ha nessuna intenzione di smettere di lavorare, semplicemente una discussione in merito con il suo capoccione adorato le sembra prematura, e la rimanda a data da destinarsi.)
Come spesso capita, Sabina è di vedute un po’ più larghe, Massimo è un po’ più conservatore, e su tanti argomenti discutono animatamente. Ma ci sono anche tantissime passioni che condividono: fra queste, al primo posto, c’è l’amore per le motociclette.
Mettendo insieme soldo su soldo e risparmiando dovunque era possibile, Massimo si è potuto comprare la sua nuova moto, quella che sognava da tanto tempo. Sabina approva questa scelta, perché pensa che le vere grandi passioni vadano perseguite, e quindi è l’alleata più convinta di Massimo contro tutto il resto di tutte e due le famiglie mugugnanti.
Massimo non saprebbe spiegarlo con parole troppo chiare, ma istintivamente sente la speciale unica qualità di Sabina, e la ama e la rispetta ogni giorno di più.

Con orgoglio le mostra la sua fiammante Honda CBR 900, ascoltano insieme il rombo del motore, e partono per la loro scampagnata domenicale su per le colline.
Nessuno vede l’incidente, quindi nessuno può descriverlo, ma quando arrivano le ambulanze si capisce subito che la cosa è molto grave.
La moto praticamente non esiste più, i vari pezzi accartocciati nel raggio di trenta metri. Sabina arriva morta all’ospedale. Massimo ci arriva rotto in diversi punti, ma vivo.

Quando dopo diverse ore si risveglia dal sonno senza sogni dei sedativi, Massimo vuole sapere di Sabina. Dapprincipio tutti tergiversano (nessuno è mai preparato né a dare né a ricevere queste notizie), poi pur con mille cautele lo zio Francesco è costretto a dirglielo.
Come pazzo allora Massimo comincia ad urlare e dimenarsi e vorrebbe alzarsi dal letto tanto che devono intervenire tre infermieri ben piazzati che insieme allo zio Francesco lo tengono fermo, finché riescono a fargli una nuova iniezione di sedativo e lui finalmente si calma un po’ e pian piano si addormenta.
Nel dormiveglia non fa che ripetere il nome di lei e dice che non è possibile, che si devono sposare, che è tutto pronto, persino la lista degli invitati, che l’abito è già stato comprato e il ristorante prenotato. Quasi tutti i parenti escono dalla stanza, gli infermieri non sanno da che parte guardare, resta solo lui, lo zio Francesco, invecchiato di vent’anni in una notte, seduto accanto al letto di Massimo, che gli tiene la mano con espressione concentrata.

Si risveglia nuovamente, e stavolta sembra molto più tranquillo. Vede lo zio accanto al suo letto e sorridendo gli dice:
-Zio, oggi io e Sabina ci sposiamo.
-Cosa dici, bambino mio, lo sai che non è possibile.
Non è possibile civilmente, non è possibile per la chiesa, ma Massimo non sente ragioni, e minaccia di fare qualche pazzia se non gli fanno sposare Sabina. Allora viene chiamato il parroco che lo conosce da quando è nato, ma nemmeno lui riesce a dissuaderlo.

Quello stesso pomeriggio Massimo viene trasportato in ambulanza fino alla piccola Cappella del Commiato vicino a casa di Sabina, dove è esposta la salma della ragazza in attesa del funerale.
Gli infermieri accostano la sua lettiga alla bara aperta di Sabina, e Massimo le infila al dito la fede nuziale che avevano scelto insieme, poi le sistema con cura e dolcezza un bel bouquet di fiori all’altezza delle mani, mentre il parroco recita una preghiera per gli sposi.
La mattina successiva si celebra il funerale. Ci sono i parenti, gli amici, c’è tutto il quartiere, ci sono i soliti curiosi. Ci sono tutti.
Manca solo Massimo.

mercoledì 4 giugno 2008

Lorenzo, forse

Mi è stato di enorme insegnamento, e non sono neanche certo di ricordare il suo nome.
Si chiamava Lorenzo, se non sbaglio, e a quindici anni non ancora compiuti era alto un metro e ottantasei.
In occasione delle partite del torneo di pallavolo fra i licei di Roma, si cominciavano a notare sempre più frequentemente i talent-scout delle squadre di A1 e A2 che senza dare tanto nell’occhio annusavano l’aria con espressione fintamente distaccata.
Fra i liceali della capitale Lorenzo era già un idolo, per la sua schiacciata micidiale e il suo carattere gioioso e guascone.
Suo padre osservava gli inviati delle squadre professioniste, sognava ad occhi aperti per Lorenzo un futuro radioso, e fumava in silenzio passeggiando sul bordo del campo.
Il radioso futuro e la luminosa carriera che aspettavano lì dietro l’angolo furono spazzati via in un momento quando il padre di Lorenzo, in un fatale attimo di distrazione, chiuse la mano del figlio nella portiera della macchina, troncandogli di netto l’intero indice e oltre metà del medio della mano destra, la mano con cui Lorenzo usava schiacciare.

La prima partita dopo il terribile incidente si notarono tre cose: l’assenza dei talent-scout i quali non avevano più nulla da annusare; l’assenza del padre di Lorenzo; ma soprattutto la presenza di Lorenzo a bordo campo con l’enorme fasciatura che gli copriva le tre dita abbondanti rimaste attaccate.
Certo stava male, certo aveva sofferto e avrebbe ancora sofferto, certo avrebbe avuto nostalgia della serie A, ma quello che si capì fin da subito fu che insieme alle dita di Lorenzo, insieme alla sua folgorante carriera appena annunciata, incredibilmente (per me) non se n’era volato via anche il suo carattere.

Lorenzo non smise mai di seguire appassionatamente la pallavolo, con lo stesso gioioso entusiasmo di sempre, e alla fine divenne allenatore di una squadretta che veleggiava stentatamente tra la serie B e il fondo della A2. Una mediocre carriera che lo rese felice e soddisfatto di sé.

E non smise mai di tentare, senza il minimo successo, di consolare suo padre per quell’attimo di distrazione. Di questa parte della storia a dire il vero so ben poco, ma quel che è certo è che il padre di Lorenzo non si fece mai più vedere né sul campo di pallavolo, né davanti alla scuola, né lo si vedeva più circolare nel quartiere.
Dicono poi che cominciò a bere e che passava intere giornate a guardare ininterrottamente i filmati delle partite del torneo di pallavolo che aveva registrato con la sua cinepresa.
Non so se crederci o meno, fatto sta che cinque anni dopo morì, chi dice per un tumore al fegato, chi dice di cirrosi epatica, e il giorno del funerale fu l’unico giorno in cui vidi Lorenzo piangere.

martedì 3 giugno 2008

Gli Innocenti

Hanno occhi buoni, sorrisi larghi e irresistibili, i sorrisi dei bambini. Perché sono bambini.
Ma hanno bruciato case, ucciso uomini, donne e altri bambini, mozzato mani e intere braccia, gambe e piedi, nasi, orecchie, quello che capitava, come in un lotto dell’orrore.
Uno di loro racconta con un sorriso divertito: “Scrivevamo su diversi foglietti di carta naso, gamba, mano, orecchio, eccetera, poi mettevamo tutti i foglietti di carta in un sacchetto, mischiavamo e poi estraevamo un bigliettino: quello che c’era scritto sopra noi lo tagliavamo.”

Dove Eravamo Rimasti

Ricordo che eravamo seduti al bar a chiacchierare del più e del meno, e a sorseggiare un aperitivo, quando lui mi disse:
-Sono un po' preoccupato per il colore della mia merda.
-Va bene che ci conosciamo da quando eravamo in terza media, ma ti pare il caso di parlarmi della tua merda dopo quasi un anno che non ci vediamo?
Ci mettemmo a ridere, e quella fu l’ultima volta che ridemmo insieme di gusto con un residuo di quella spensieratezza che avevamo avuto in passato, senza mai sapere di averla.
Le nostre strade si erano separate, ma non i nostri cuori. Vivevamo lontani e ci vedevamo sempre più raramente, a volte anche a distanza di diversi mesi l’una dall’altra. Ma ogni volta, magicamente, continuavamo il discorso come se l’avessimo interrotto giusto il tempo di una pisciata o di un battito di ciglia. Conosco molte persone con le quali mi accade l’esatto contrario: posso incontrarle anche venti volte in una settimana, e ogni volta ci troviamo a dover rompere quel massiccio strato di ghiaccio che si solidifica più rapidamente di qualsiasi nostro sforzo.
La differenza tra la giovinezza e quello che viene dopo è che ad un certo punto ti ritrovi improvvisamente a parlare della pressione, dei capelli che cadono, del cazzo che non ti tira più, dei bozzi che ti spuntano addosso di qua e di là. E del colore della tua merda.
E’ ineluttabile, e uno dei cementi più forti della nostra unione speciale è che siamo tutti e due dei tremendi ipocondriaci cacasotto, e quindi la mia risposta sorpresa al bar era in fondo parte di un gioco delle parti, perché quello era esattamente uno dei nostri argomenti più classici e abituali.
Il nostro era un esorcismo: lui non pensava che io potessi morire, intendo realmente morire, e io non pensavo che lui potesse morire.

Invece lui aveva già cominciato a morire, ma nessuno di noi due lo sapeva. Molti dei nostri amici comuni ad un certo punto non hanno più voluto vederlo: volevano ricordarlo com’era una volta, dicevano. A me è successo invece di avere bisogno di vederlo, di accompagnarlo in quegli ultimi tre mesi, in cui ci siamo visti più volte che nei precedenti cinque anni. Ci sono grosso modo due tipi di persone, penso. Di fronte alla certezza della morte che sta arrivando, c’è chi si abbandona. E c’è chi lotta. Lui ha lottato con una ferocia che non avrei mai sospettato, e so di dire una cosa quasi blasfema, ma la sua agonia mi è servita, mi ha aiutato a resistere, e questo è il motivo per cui avevo così bisogno di vederlo.

Ora sono rimasto solo davanti alla sua tomba, dovrebbe piovere e invece è una giornata bellissima, quasi fastidiosa. Come uno scemo gli parlo, e mi viene un po’ da ridere ripensando alle cazzate che abbiamo sparato in quei tre mesi. Tra l’altro abbiamo trovato il coraggio di raccontarci di tutte le donne che ci eravamo fregati a vicenda ai tempi del liceo. E naturalmente ci siamo resi conto che non c’era bisogno poi di tanto coraggio.
Parlavamo fitto senza quasi mai interromperci, più spesso parlavo io perché lui si stancava di parlare ma non di ascoltare, e c’era quel senso di urgenza, chiarissimo anche se non detto. Ricordo che ogni mattina quando di buon’ora arrivavo in ospedale e entravo nella sua stanza lui mi accoglieva invariabilmente con un sorriso e una domanda:
-Dove eravamo rimasti?

Anche lunedì scorso è andata così. Non so se aveva bisogno di salutarmi, forse sapeva che io avevo bisogno di salutare lui. Sono entrato e lui mi ha sorriso, come sempre, e come sempre mi ha fatto la domanda che era diventato il nostro rito benaugurale. Poi ha chiuso gli occhi.

Lettere

Dice:
"Sta ricominciando a scrivere male, con quella sua calligrafia a zampa di gallina, vuol dire che sta meglio. Vedi, questa lettera è della fine di maggio, una delle ultime prima dell'infarto. Questa invece l'ha scritta il 22 giugno, venti giorni dopo l'infarto. E questa l'ha scritta, vediamo, il 10 luglio, una settimana fa. Guarda, guarda quest'ultima, che schifo di calligrafia -dice con un sorriso- confrontala con quella di maggio. Vedi come si somigliano le due calligrafie? Certo, quest'ultima non è ancora perfetta, perfettamente incomprensibile come quella dei bei tempi, però sta migliorando, cioè peggiorando. Mi segui? Voglio dire che sta tornando piano piano ad essere il modo di scrivere dell'uomo che conosco e che amo, di quello che non guarda in faccia nessuno, che non si preoccupa più di tanto di farsi capire. Una calligrafia da dottore, da professionista, da uomo di potere. Ma il confronto con la lettera del 22 giugno potrà aiutarti a capire meglio. Guarda qui, che pena. Le Ti, guarda le Ti, tutte dritte e precise, e le O tonde tonde come fatte col compasso. Una scrittura lenta, sofferta, quella di un bambino debole e spaventato. Da allora c'è stato un netto peggioramento, cioè miglioramento."
Poi alza lo sguardo, e fissandomi negli occhi per la prima volta dice sottovoce con aria smarrita:
"Cosa ne pensi, ce la farà?"

Le Stagioni Intermedie

Conservare tutto è come non conservare niente.

Più me lo ripeto e meno ne prendo atto, e intanto i miei cassetti si riempiono di roba che non avrò mai il tempo né la voglia di guardare più.

Più il tempo si fa corto, più senti l'impossibilità di fare qualunque cosa, che sia leggere, parlare, guardare un film, ascoltare la musica, mangiare e non nutrirsi, scopare, più senti quindi l'esigenza di porre un argine al suo dominio, al dominio del tempo, più quindi cerchi di sottrargli qualcosa conservandolo, nascondendolo, infilandolo in un cassetto, in una cartellina, in una busta sulla quale poi metti delle belle etichette, più in verità fai il suo gioco, perché la somma algebrica di tutti questi reperti è sempre zero.

Come tutto il resto dell'umanità, di mestiere faccio il collezionista di ricordi. E' il mestiere universale. Anche chi pensa di fare lo spazzino, l'attore, l'astronauta, l'assassino, il bancario, in realtà di mestiere fa questo.

"Vuoi venire su da me che ti mostro la mia collezione di ricordi?"