martedì 3 giugno 2008

Dove Eravamo Rimasti

Ricordo che eravamo seduti al bar a chiacchierare del più e del meno, e a sorseggiare un aperitivo, quando lui mi disse:
-Sono un po' preoccupato per il colore della mia merda.
-Va bene che ci conosciamo da quando eravamo in terza media, ma ti pare il caso di parlarmi della tua merda dopo quasi un anno che non ci vediamo?
Ci mettemmo a ridere, e quella fu l’ultima volta che ridemmo insieme di gusto con un residuo di quella spensieratezza che avevamo avuto in passato, senza mai sapere di averla.
Le nostre strade si erano separate, ma non i nostri cuori. Vivevamo lontani e ci vedevamo sempre più raramente, a volte anche a distanza di diversi mesi l’una dall’altra. Ma ogni volta, magicamente, continuavamo il discorso come se l’avessimo interrotto giusto il tempo di una pisciata o di un battito di ciglia. Conosco molte persone con le quali mi accade l’esatto contrario: posso incontrarle anche venti volte in una settimana, e ogni volta ci troviamo a dover rompere quel massiccio strato di ghiaccio che si solidifica più rapidamente di qualsiasi nostro sforzo.
La differenza tra la giovinezza e quello che viene dopo è che ad un certo punto ti ritrovi improvvisamente a parlare della pressione, dei capelli che cadono, del cazzo che non ti tira più, dei bozzi che ti spuntano addosso di qua e di là. E del colore della tua merda.
E’ ineluttabile, e uno dei cementi più forti della nostra unione speciale è che siamo tutti e due dei tremendi ipocondriaci cacasotto, e quindi la mia risposta sorpresa al bar era in fondo parte di un gioco delle parti, perché quello era esattamente uno dei nostri argomenti più classici e abituali.
Il nostro era un esorcismo: lui non pensava che io potessi morire, intendo realmente morire, e io non pensavo che lui potesse morire.

Invece lui aveva già cominciato a morire, ma nessuno di noi due lo sapeva. Molti dei nostri amici comuni ad un certo punto non hanno più voluto vederlo: volevano ricordarlo com’era una volta, dicevano. A me è successo invece di avere bisogno di vederlo, di accompagnarlo in quegli ultimi tre mesi, in cui ci siamo visti più volte che nei precedenti cinque anni. Ci sono grosso modo due tipi di persone, penso. Di fronte alla certezza della morte che sta arrivando, c’è chi si abbandona. E c’è chi lotta. Lui ha lottato con una ferocia che non avrei mai sospettato, e so di dire una cosa quasi blasfema, ma la sua agonia mi è servita, mi ha aiutato a resistere, e questo è il motivo per cui avevo così bisogno di vederlo.

Ora sono rimasto solo davanti alla sua tomba, dovrebbe piovere e invece è una giornata bellissima, quasi fastidiosa. Come uno scemo gli parlo, e mi viene un po’ da ridere ripensando alle cazzate che abbiamo sparato in quei tre mesi. Tra l’altro abbiamo trovato il coraggio di raccontarci di tutte le donne che ci eravamo fregati a vicenda ai tempi del liceo. E naturalmente ci siamo resi conto che non c’era bisogno poi di tanto coraggio.
Parlavamo fitto senza quasi mai interromperci, più spesso parlavo io perché lui si stancava di parlare ma non di ascoltare, e c’era quel senso di urgenza, chiarissimo anche se non detto. Ricordo che ogni mattina quando di buon’ora arrivavo in ospedale e entravo nella sua stanza lui mi accoglieva invariabilmente con un sorriso e una domanda:
-Dove eravamo rimasti?

Anche lunedì scorso è andata così. Non so se aveva bisogno di salutarmi, forse sapeva che io avevo bisogno di salutare lui. Sono entrato e lui mi ha sorriso, come sempre, e come sempre mi ha fatto la domanda che era diventato il nostro rito benaugurale. Poi ha chiuso gli occhi.

Nessun commento: