sabato 5 gennaio 2013

La scatola da scarpe

Un regalo strano l’ho ricevuto il giorno del mio dodicesimo compleanno. Avevo già avuto quello che desideravo e che mi aspettavo, ma mio padre disse: -Non è finita. Lo disse con un sorriso appena accennato che non riuscii ad interpretare. Guardai mia madre, che mi sembrò stupita. Mi ci gioco le palle che non ne sapeva niente neppure lei. Il mio vecchio si alzò e andò in camera sua. Quando tornò in salotto aveva in mano un pacchetto della grandezza di una scatola da scarpe, avvolto in una carta da regalo rossa e abbellito da un nastro dorato. Non me lo diede, però, e invece si rimise seduto sul divano con il pacchetto in grembo. Per un po’ nessuno disse niente. Io non dicevo niente perché non ci capivo niente, e una delle poche cose che avevo imparato era che quando non ci capisci niente, la cosa migliore è startene zitto e ascoltare. Non ho mai capito granché della vita, devo dire, quindi questa regola mi è stata utile in diverse occasioni. E credo sarebbe molto utile a molta gente. Comunque, dopo un intervallo di tempo piuttosto lungo, mio padre si decise: -Andrea, questo è l’ultimo regalo per il tuo compleanno. E’ un regalo molto prezioso, ma ha una particolarità che necessita di una grande disciplina da parte tua. Qui lasciò scivolare una delle sue irritanti pause alle quali attribuiva un grande effetto retorico, e che invece per me erano semplicemente pallose. Restai zitto, in attesa. Mi fissò dritto negli occhi e con tono solenne continuò: -La particolarità di questo regalo è che tu non devi aprire la scatola fino al giorno in cui arriverai alla mia età. Rapido calcolo: 47-12=35. Cazzo, dovrei stare trentacinque anni senza aprire quella scatola? Ammazza che stronzo, pensai. Lo pensai per la prima volta. Negli anni successivi lo avrei pensato tante altre volte. Ma quella prima volta lo pensai così forte che temetti l’avesse sentito. Per quanto ne sapevo potevo persino averlo detto senza accorgermene. Dal fatto di non essere ribaltato da uno di quei manrovesci che mi assestava di quando in quando con le sue mani enormi, dedussi che non aveva sentito. Ma l’espressione della mia faccia parlava per me. -Ora sei deluso, lo so. Non ti posso svelare niente a proposito del contenuto di questa scatola. L’unica cosa che posso dirti è che qui dentro c’è qualcosa della quale ora non sapresti che fartene, ma che ti sarà enormemente utile quando lo aprirai. Se voleva consolarmi, non ottenne l’effetto desiderato. Rimasi in silenzio, ma confesso che un paio di lacrime mi rigarono le guance. -Capisco che è difficile, Andrea. Ora ti consegnerò il tuo regalo, ma prima di farlo ho bisogno che tu faccia una cosa per me. Devi promettere sul tuo onore che non lo aprirai fino al giorno del tuo quarantasettesimo compleanno. C’erano diverse cose che avevo voglia di fare, alcune delle quali non confessabili, ma certamente non avevo nessuna voglia di formulare una promessa così assurdamente contro natura. Sul mio onore, poi. Ma inaspettatamente una voce che mi sembrava lontanissima, anche se proveniva dalla mia gola, disse: -Lo prometto. E il pacchetto divenne mio. Quando passò dalle grandi mani di mio padre alle mie piccole mani, rimasi stupito dal suo peso. Pensai: una cosa è certa, anche se sembra una scatola da scarpe dentro non ci sono delle scarpe, a meno che non siano delle scarpe di piombo. Ieri ho compiuto 47 anni quasi senza accorgermene. Arriva l’età in cui non c’è molto da festeggiare. Mia madre è morta tre anni fa, mio padre morirà presto. Io sono solo, perché l’unica donna che ho amato veramente e con la quale avrei voluto e potuto vivere desiderava dei figli. Io no. Comunque potesse andare a finire tra noi, uno di noi avrebbe dovuto subire una scelta che non condivideva su un tema molto importante. Così è finita che ci siamo lasciati. Lei ora ha quattro figli, penso e spero che sia contenta. Ogni tanto ci sentiamo, per esempio quando mi chiama per farmi gli auguri di compleanno. Non dimentica mai la data. Anche ieri mi ha telefonato, è così che mi sono ricordato che era il mio compleanno. Non solo, mi ha anche ricordato quanti anni ho compiuto. Io ho un po’ perso il conto, o forse mi fa comodo crederlo. -Quarantasette anni, accipicchia, vecchione. Come ti senti? -Quarantasette? Sei proprio sicura? Non sono quarantasei? -Non ci provare, Andrea. Sono quarantasette. Morto che parla. (L’originalità dell’umorismo non è mai stata una sua dote. Ne aveva delle altre, di doti.) Ci salutammo, e io mi sentivo strano, e mi chiedevo perché mi sentivo così strano. Doveva avere a che fare con il quarantasette, ma non sapevo in che modo. Avete presente la sensazione che si prova quando non riesci a ricordarti il nome di un attore che conosci benissimo? Quella. Il nome è lì, davanti a te, ma non riesci a vederlo, o meglio lo vedi, sai che è lì, ma è come se improvvisamente fosse stato ricoperto da un velo di bambagia. Una sensazione di soffocamento. Poi, improvvisamente come era arrivata, la nebbia si è alzata. E da sotto la nebbia è spuntata la scatola da scarpe. In mezzo c’erano quei trentacinque anni. Senza averlo deciso, cominciai quasi involontariamente a passarli in rassegna. Il ponte pericolante che separa quel bambino da quest’uomo solo e un po’ malinconico è pieno di giorni passati a guardare quella scatola proibita. Per anni è sempre stata con me, a portata di mano. Tortura sublime. Quante notti ho allungato il braccio fino a terra e sotto il letto a controllare che ci fosse, quando mi svegliavo sudato alle due o alle tre di notte. Quanti giorni sono tornato correndo a perdifiato da scuola terrorizzato dalla certezza che non l’avrei ritrovata, e invece era sempre là che mi aspettava. Quanti giorni dei miei successivi compleanni li ho trascorsi in trance a fissare quella scatola del cazzo, senza vedere altro che quella. Infinite volte allora ho maledetto mio padre, infinite volte ho alimentato il mio odio verso di lui, gli ho augurato la morte, me ne sono pentito, e poi gliel’ho augurata di nuovo. In tutti quegli anni, anche se ne ho avuto spesso la tentazione, mai ho seriamente preso in considerazione l’ipotesi di aprirla. Come di solito accade, il motivo era in realtà una combinazione di motivi: parte obbligo morale di mantenere la parola data (il famoso onore), parte terrore superstizioso che se l’avessi aperta prima del tempo sarebbe successo qualcosa di simile a quello che accade quando i nazisti aprono l’arca dell’alleanza alla fine de I predatori dell’arca perduta di Spielberg. Quando infine l’ossessione divenne insopportabile, presi una decisione dolorosa. Non potevo distruggerla o gettarla via, ma dovevo allontanarla da me. Ormai per me era diventata come la Kriptonite verde per Superman. Finì in cantina, poi in soffitta, poi in un’altra cantina. Sempre viaggiando con me nei miei tanti traslochi e non abbandonandomi mai, ma a debita distanza. Poi me ne dimenticai, fino a ieri. Ieri. Avreste dovuto vedermi ieri in cantina, mentre come un pazzo aprivo scatoloni mezzo ammuffiti dall’umidità che si sgretolavano tra le mie mani in un crescendo parossistico mentre la disperazione alimentava la mia furia, e la mia furia accresceva la disperazione. Quando avevo deciso che non l’avrei mai trovata, e avevo cominciato a prendere a calci e pugni il muro scrostato della cantina procurandomi varie abrasioni, la vidi. L’umidità aveva trasformato il rosso vivace della carta in cui era avvolta in un color mattone scuro, sembrava aver subito un processo di invecchiamento simile a quello dei vini d’annata. E dato che l’avevo infilata, secoli prima, in uno scaffale dietro ai vini, aveva finito per mimetizzarsi con essi. Lo so che avrei dovuto tributare la giusta solennità all’apertura della scatola. Dopo tutto erano trentacinque anni che aspettavo questo momento. Ma non è così che vanno le cose. O almeno, non è così che è andata per me. Ho strappato la carta violentemente con le mani sanguinanti e ho sollevato il coperchio. La scatola era piena di sabbia. Ci affondai le mani alla ricerca di qualcosa che potesse essere nascosto lì in mezzo. Niente. Solo sabbia a ricoprire altra sabbia. Il mio regalo tanto atteso. Nonostante l’umidità della cantina, la sabbia si era conservata piuttosto asciutta. Ne presi in mano una bella manciata, e la lasciai scivolare lentamente tra le dita, rapito. La corsia dell’ospedale era deserta, perché io riuscivo sempre ad arrivare quando i parenti degli altri malati se n’erano andati via. Lo trovai nel suo stato di perenne dormiveglia in cui lo teneva la morfina, buon per lui. Socchiuse appena gli occhi quando mi sedetti accanto a lui e gli presi la mano. Parlai sottovoce: -Ciao papà. Ieri ho compiuto quarantasette anni, sai? Così ho aperto il tuo regalo. Lui sollevò lo sguardo e mi fissò. Era già da tempo che aveva smesso di parlare. -Ho capito, papà. Grazie. Volevo dirti solo questo. Lui accennò un sorriso e quasi impercettibilmente annuì. Poi chiuse gli occhi.

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