venerdì 8 ottobre 2010

Bisogna saper perdere


Il problema più grosso restava sempre quello della batteria. Era un po' che ci pensavamo, senza riuscire a trovare una soluzione accettabile. E senza batteria, lo sapevamo tutti, non si può fare un complesso. La soluzione arrivò un pomeriggio di giugno, e come spesso accade, arrivò per caso. Erano le cinque e noi stavamo seduti sullo scalone, un po' tristi e indecisi sul da farsi. C'erano varie ipotesi sul tappeto: dalle più innocenti, come una bella partita a campana, che però era un gioco da piccoli e quindi negli ultimi tempi caduto decisamente in disgrazia, alle più ardimentose, come la classica battuta di caccia alla lucertola o il nuovo sport che avevamo appena scoperto, la ripidissima discesa del garage in bicicletta senza toccare i freni. Uno sport da veri uomini, infatti era già costato quattro denti alla povera Cristina, che aveva voluto provare a tutti i costi, e noi la sconsigliavamo, e lei dài che insisteva, e poi si è cacata sotto a metà discesa e ha frenato coi freni davanti e naturalmente è partita tipo catapulta. Quando l'abbiamo portata a casa con la faccia piena di sangue la madre è svenuta e così non sapevamo cosa fare, con Cristina che frignava da una parte e sua madre per terra dall'altra, meno male che è arrivata una vicina.
Franco, che era il più grande del gruppo, lanciò la proposta più allettante, l'unica in grado in quel periodo di distrarci dall'idea fissa del complesso. Si guardò intorno con aria circospetta per essere sicuro che nessuno, all'infuori di noi, lo potesse sentire, poi disse sottovoce:
-Pippe? Si accese una vivacissima discussione condotta però da tutti a voce bassissima, da veri carbonari. Qualcuno disse "Basta, sono due mesi che ci tiriamo le pippe sempre sullo stesso giornaletto, non mi si alza più!", qualcun altro rispose "E' perché sei frocio che non ti si alza più", e si misero a darsela di santa ragione ma sempre in silenzio. Fino a che Franco disse:
-C'è una novità. Guardate un attimo sotto la mia maglietta, ma senza farvene accorgere. Facendo cerchio intorno a Franco, uno alla volta guardammo sotto la sua maglietta, che lui alzava e abbassava velocissimo. Beh, ragazzi, nessuno di noi aveva mai visto niente del genere. Su quel giornaletto c'era la fica più grande che avessimo mai ammirato, e la cosa più incredibile era che non si trattava di disegni, ma di fotografie. Eravamo senza fiato, storditi, e al colmo dell'eccitazione. Stavamo già alzandoci per andare nel nostro posto segreto quando ci fu il colpo di scena. Dall'angolo della strada apparve la signora Farulli che tornava a casa con la spesa. Uno di noi lanciò un urlaccio:
-Cazzo! Ho scoperto come faremo a fare la nostra batteria. Stava fissando quasi in trance il fustino di Dash che la signora Farulli teneva in mano. Allora i fustini erano cilindrici, ed effettivamente con un po' di fantasia potevano essere assimilati a dei tamburi. Da quel momento, rimosso il blocco iniziale, la realizzazione della batteria fu molto agevole e spedita. Applicammo in cima a due fustini due tamburelli di quelli con cui si giocava con le pallette di gomma piene, e per i piatti ci facemmo aiutare dal padre di Franco, che aveva un negozio di alimentari. Ci mise da parte tre coperchi di latta di quelle grandi confezioni di tonno che arrivavano solo nei negozi, poi bastava fargli un buco in mezzo, metterli in cima a un bastone e la batteria era bella che fatta. Eravamo pronti ad andare in scena. Così un pomeriggio, non senza batticuore, salimmo sul Montarozzo. Il Montarozzo era effettivamente un montarozzo di terra situato nel prato di fronte ai palazzi, e l'avevamo eletto a nostro palcoscenico ideale. Preparammo con cura gli strumenti: oltre alla batteria, avevamo tre chitarre, o meglio, io e Stefano avevamo una chitarra giocattolo, e quello sculato di Franco aveva una chitarra elettrica vera, con tanto di amplificatore, che però non ci eravamo portati sul Montarozzo tanto non si poteva attaccare da nessuna parte. Mauretto era alla batteria, e Angelo, suo fratello più piccolo, che non suonava niente, faceva il presentatore. Dai palazzi di fronte non arrivava praticamente alcun segno di vita, a parte una signora che stava sbattendo i tappeti con il ben noto e temuto battipanni. Un brivido percorse la nostra schiena, mentre Angelo, leggendo il foglietto che gli avevamo preparato, urlò a squarciagola:
-Signore e Signori, ho l'onore di presentarvi un complesso che rivole... rivoluziara... rivoluzionerà la musica italiana! Sono stasera con noi, The New Rokes! Un bell'applauso di incoraggiamento! La signora non applaudì, ma smise di battere il tappeto e si affacciò al balcone, e questo per noi fu un incoraggiamento sufficiente. Cominciammo lo spettacolo. Essendo all'inizio, il nostro repertorio era piuttosto limitato: per l'esattezza, sapevamo fare solo "Bisogna saper perdere", ma su quella ci eravamo preparati benissimo. Eravamo mediamente piuttosto stonati, ma quando arrivava il famoso colpo di tacco sul ritornello, lo eseguivamo con perfetto sincronismo. Alla fine della canzone, la signora ci regalò un sorriso e un applauso, e noi le regalammo altre due volte "Bisogna saper perdere", fino a quando lei rientrò in casa.
Considerammo la nostra prima apparizione dal vivo un grosso successo, e da quel giorno per noi si aprì un periodo molto felice e intenso, diviso fra la carriera musicale e la scoperta del sesso, nascosto sotto la maglietta di Franco, tra le pagine di quel giornaletto che per alcuni mesi fu la nostra lettura preferita.

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