mercoledì 3 giugno 2009

Quello che so

Diciassettesima puntata (prego cliccare sul titolo a fine lettura)

41.
Ancora una volta, Calogero Moiano era solo. E non si trovava affatto male in quella situazione. Uomo di poche pretese e senza vizi, una delle poche cose alle quali aveva deciso di non voler rinunciare era l’amore per la musica. Amava la musica in modo totale, incondizionato. E come tutti quelli che amano veramente la musica, amava tutta la musica. Pensava e credeva fermamente che come in tutte le cose, come nel cinema, nella letteratura, nella cucina e nell’architettura (e sospettava che Francesco M. avrebbe potuto dirgli la stessa cosa a proposito della pubblicità) non esistessero generi musicali migliori o peggiori di altri, più o meno degni di nota, più o meno apprezzabili, più o meno seri. Come in tutte le cose, Calogero Moiano pensava che la musica contemplasse unicamente due generi: la buona musica e la cattiva musica.
Esistevano invece gli umori, gli stati d’animo, e la musica che questi umori assecondava, esaltava, o cullava.
Quella notte, osservando la città dall’alto scorrere senza senso apparente, Moiano sentiva il bisogno di ascoltare Carlo Gesualdo, detto anche Gesualdo da Venosa. Prese il CD di Musica sacra per cinque voci nell’esecuzione dell’Oxford Camerata e si mise le cuffie, avvicinandosi alla finestra. Tutte le volte che incontrava Carlo, provava ad immaginarlo affacciato dall’alto delle mura della sua fortezza di Gesualdo, intento ad osservare l’orizzonte che gli si apriva sconfinato, dopo che per ampliarlo aveva fatto abbattere i boschi di querce e pioppi che circondavano il castello. Calogero sentiva Carlo Gesualdo particolarmente vicino, forse anche perché venivano dalla stessa terra. E ogni volta che ascoltava la sua musica, Moiano si scopriva a chiedersi quale fosse la parte del dolore e del rimorso contenuta nel misticismo di queste meravigliose composizioni. Quanto l’espiazione per aver brutalmente trucidato la sua prima moglie e l'amante di lei fosse parte integrante dell’ispirazione musicale di uno dei più grandi compositori italiani del XVI secolo. Le cronache dell’epoca dipingono Gesualdo da Venosa come un uomo tormentato e introverso, profondamente segnato dal suo gesto. Ma Calogero Moiano avrebbe voluto saperne di più, essere là nel castello arroccato insieme a lui, a farsi raccontare dal principe quali fossero i suoi veri sentimenti. Se sentiva veramente di avere imperdonabilmente offeso il suo dio, un altro essere umano, se stesso. Quale fosse il peso di quella colpa. E credeva che questo fosse dovuto ad una convinzione che si stava facendo strada nella sua mente e nel suo cuore in tempi recenti: la convinzione che del rimorso, del senso di colpa, dell’esistenza stessa del concetto di colpa, di peccato, e infine di giusto e sbagliato, di moralmente e socialmente accettabile e inaccettabile, si stesse perdendo traccia.

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