venerdì 20 marzo 2009

Maramao (perché sei morto)

1.
Ora so perché continuavano ad andare là puntualmente tutte le domeniche come avevano sempre fatto.
Prima ci andavano con due figli, poi ci andavano con un figlio solo. E questa era l'unica differenza.
Per il resto la ritualità della passeggiata al parco era rispettata fin nei minimi particolari.
Esternamente, quindi, niente era cambiato, ma è meglio non guardare dentro di loro, perché sarebbe troppo straziante scoprire la montagna di dolore seppellita sotto la consuetudine.
Da quella mattina di due anni prima vivevano come in una specie di trance, un sonno ad occhi aperti riempito di obblighi, compiti e doveri rigidamente scadenzati che non lasciavano il minimo spazio al silenzio, al pensiero, e soprattutto al ricordo.
Quella specie di sonnolento torpore iperattivo in cui erano volontariamente scivolati era rotto violentemente di quando in quando dal loro incolpevole figlio più piccolo (il loro unico figlio) che con la crudele innocenza dei bambini si fermava a volte nel bel mezzo di una partita a pallone con il papà, della lettura di un libro, della visione di una videocassetta di Winnie the Pooh, e con un'espressione un po' triste sotto la zazzera bionda chiedeva: "Quando torna Alberto?"
Allora era difficile non scoppiare a piangere, ma era obbligatorio continuare a sopravvivere per lui, per quello che restava, dopo tutto. Gli avevano detto, due anni prima, che Alberto era partito per un lungo viaggio, sperando che almeno nel ricordo del piccolo Pietro la presenza di Alberto illanguidisse piano piano nel tempo, come non avrebbe mai potuto accadere per loro.
Ma non avevano fatto i conti con il carattere sensibile e profondo di quella piccola persona e con la passione e la complicità che avevano fatto già in tempo a cementarsi fra i due fratellini. Una complicità che Pietro non avrebbe mai più ritrovato da nessun'altra parte.

2.
Due anni prima, giorno più giorno meno, era domenica. In questa città triste, puzzolente e anonima dove viviamo, capita ogni tanto una giornata di sole terso, di luce trasparente che ci stupisce e quasi ci spaventa.
Loro non erano spaventati però quella mattina andando al parco con i loro due figli pestiferi, Alberto di 4 anni e Pietro di 2. Era la classica giornata in cui sarebbe stato assolutamente impossibile tenerli a casa.
Il parco era pieno di gente, come non accadeva spesso durante l'inverno, e questa fu una delle cose fatali. Alberto era intraprendente, Alberto era estroverso, Alberto era socievole e un po' ribelle. Alberto faceva prevedere e sognare per lui un futuro pieno di sole e di conquiste. Alberto era la luce dei loro occhi, e il più grande eroe del suo fratellino.
Pietro, più timido, emotivo e sensibile, viveva già da qualche tempo l'intenso dolore della separazione, della perdita. Lo viveva ogni mattina quando Alberto usciva di casa col papà per andare all'asilo, mentre lui restava a casa con la mamma. Era straziante vederlo così irrimediabilmente disperato chiamare fra le lacrime il nome di Alberto, ed era consolante riuscire a consolarlo e vederlo affrontare ogni giorno la sua mattinata senza Alberto. Chissà se si consolerà mai di quest'ultima definitiva separazione.
Alberto faceva amicizia facilmente, e forse il solo motivo per il quale oggi piangiamo un solo lutto è che quel giorno, per Pietro, la sottana della mamma fu più forte dell'idolatria nei confronti del fratello.
Come sempre accade, fu questione di un attimo. E' sempre in fondo questione di un attimo: l'attimo di disattenzione in cui finisci sotto una macchina o fuori strada, l'attimo in cui quel vaso cade e tu ci passi proprio sotto. La distrazione, o la fatalità, non durano mai più di un attimo, e per tutto il resto della tua vita sei condannato a riviverlo senza fine, quell'attimo, a rivivere la morte infinite volte, ogni volta invocando che arrivi la morte.
Un attimo prima Alberto era lì, a capo di un gruppetto di cinque o sei bambini che giocavano ai pirati con le spade di plastica, poco oltre il baracchino del cantastorie che snocciolava le sue nenie tristi sempre uguali. Sarà stato a non più di quindici metri dalla sua mamma. Si sorrisero. Papà era andato a comprare il giornale. Pietro mangiava il gelato impiastrandosi tutto di cioccolato. La mamma si chinò su di lui per pulirgli un po' il maglione, poi gli passò il fazzoletto di carta sulla bocca e sulle mani. Ecco fatto.
Quando rialzò gli occhi e guardò in direzione del gruppetto di bambini, Alberto non c'era più, e non ci sarebbe stato mai più.

3.
Hanno cercato di spiegarmelo, quello che si prova. Hanno cercato di descrivere la qualità e le dimensioni di quel vuoto che non si può descrivere. Un vuoto e una perdita resi infiniti e inconsolabili dal senso di colpa, dal non riuscire a farsene una ragione, ad assolversi.
Hanno cercato, ma credo che non riuscirò mai a capirlo fino in fondo, a sentire la perdita di un figlio. Credo che possa sentirlo solo chi perde un figlio, e credo che questo sia uno dei motivi principali per cui non ho figli.
Se non ci fosse stato Pietro non sarebbero sopravvissuti nemmeno loro, e invece sopravvissero. Sopravvissero alla prima disperazione, alle ricerche infruttuose, all'affievolirsi delle speranze, all'idea che non lo avrebbero mai più rivisto vivo, e infine all'idea che non lo avrebbero rivisto più neanche morto.
In sogno, questo sì, lo rivedevano spesso, quasi ogni notte, e quasi ogni mattina si svegliavano con gli occhi pieni di lacrime e si raccontavano reciprocamente i loro sogni. Cercavano febbrilmente il dolore, avevano bisogno di soffrire per sentire il loro bambino un po'più vicino, perché fosse in qualche modo presente.
Forse è per questo stesso motivo (ora comincio a capire) che continuavano ad andare in quel parco con agghiacciate regolarità. Strano a dirsi, non avevano sentito il bisogno di cambiare. Io avrei cambiato parco, città, stato, continente, pianeta. Loro invece avevano circoscritto sempre di più la zona del parco in cui si fermavano, a costo di costringere lo scalpitante Pietro in pochi metri quadrati con suo grande scontento.
Non sapevano perché, non si erano mai parlati in proposito, e non avrebbero saputo spiegarlo, ma si sentivano attratti da quel luogo, quasi come se lì dove era scomparso aleggiasse ancora in qualche modo la presenza di Alberto.
Naturalmente non se lo sarebbero mai confessato, non volevano finire in manicomio, ma segretamente tutti e due sentivano Alberto lì in quel posto esatto, solo lì in quei cento metri quadrati e non un centimetro più in là.
Ma non solo. Questo è ancora più difficile spiegarlo, ma se lui o lei avessero potuto articolare in parole quell'orrendo peso che artigliava il loro cuore ogni domenica mattina, avrebbero detto che in quel luogo, e solo in quel luogo al mondo, sentivano Alberto soffrire, piangere, chiamare disperatamente la mamma.

4.
Lui aveva provato a sentirsi madre, e a provare il distacco di un pezzo della sua carne, ma nemmeno questo gli era concesso. Così gli restava solo il senso di colpa, la domanda senza risposta che gli folgorava la mente ogni mattina alzandosi dal letto: perché sono andato a comprare il giornale proprio in quel momento?
Da allora non aveva mai più letto una parola scritta su un pezzo di carta, lui che era stato fino a quella mattina di due anni prima un avido lettore di qualunque cosa gli capitasse sott'occhio.

5.
La polizia non aveva saputo cosa dire. Non avevano trovato tracce, indizi, scie di alcun genere. Non c'erano sospetti né indiziati né testimoni. Movente, manco a parlarne. Naturalmente le prime ricerche si erano concentrate nei diversi campi nomadi della periferia, ma senza alcun risultato. D'altra parte nessuno aveva visto nomadi o altri personaggi sospetti aggirarsi nella zona all'ora della sparizione. Il parco, ironicamente, era considerato una zona sicura. Tutto il possibile era stato tentato, tutto inutilmente.
Il bel volto aperto e sorridente di Alberto aveva fatto capolino per un certo periodo di tempo sui manifesti nei dintorni del parco, e anche sulle buste di latte della centrale, con il solo risultato di stringere ulteriormente il cuore di quei due poveri genitori. Poi era tutto finito, intendo tutta la mobilitazione del lutto intorno a loro, e loro erano tornati a vagare nella loro mezza vita senza sole.
E come due rabdomanti pazzi ogni domenica tornavano là senza sapere perché, e ogni domenica restavano sempre più a lungo, e ogni domenica i loro movimenti si facevano sempre più lenti e il loro raggio d'azione più limitato. Infine avevano deciso che era una inutile sofferenza per Pietro portarlo al parco e mummificarlo lì per delle ore, così la domenica mattina lo affidavano ad una baby sitter che lo portava in un'altra zona del parco, e loro potevano liberamente varcare la soglia del loro particolarissimo inferno, sedersi su di una panchina, e rimanere per ore assolutamente immobili senza una parola mentre il sole si alzava per poi tornare ad abbassarsi, la vita scorreva intorno a loro, il parco si riempiva di voci colori e carrozzine e poi tornava a svuotarsi.

6.
L'unica eco del mondo esterno, ma remotissima,come se provenisse dal fondo di un mare profondo, era la monotona litania del cantastorie, che si ripeteva negli anni sempre uguale a se stessa. Il repertorio del vecchietto era limitatissimo: tre quattro canzoni al massimo, ripetute ossessivamente. Ma il suo vero cavallo di battaglia era Maramao perché sei morto, e nella versione del vecchio cantastorie la canzonetta bambinesca acquistava una mellifua e ipnotica mollezza. Data l'esiguità del repertorio, a loro che restavano per ore semisvenuti sulle panchine poteva capitare anche di ascoltarla una trentina di volte ogni domenica, questa canzone. E fu sentendo il cantastorie cantare per l'ennesima volta Maramao perché sei morto che una mattina accadde.
Si svegliarono insieme dal loro trance, insieme cominciarono a guardare il cantastorie per la prima volta, e non solo ad ascoltarlo. Insieme videro la buffa scimmietta di peluche appesa per il collo ad un trespolo e mossa dalla sorridente vecchietta al ritmo delle canzoni cantate dal marito. Insieme osservarono il rozzo teatrino in cui si muovevano quatto soldatini di legno, anch'essi al ritmo di Maramao perché sei morto.
Insieme, senza aprire bocca, si comunicarono l'un l'altro quella strana voglia che era arrivata improvvisa, nel medesimo istante, e aveva bussato imperiosamente al cuore di tutti e due, senza lasciargli la minima possibilità di scelta.

7.
Quando ormai il silenzio si era impadronito del parco, quando le voci dei bimbi si erano dileguate per rifugiarsi al caldo delle loro case ancora felici, quando gli ultimi passanti infreddoliti si affrettavano verso le uscite, il cantastorie cominciò a smontare tutto il suo apparato scenografico, aiutato dalla sua fedele compagna. Con infinito amore e infinita cura smontarono il trespolo con la scimmietta, il teatrino con i soldatini, che vennero riposti ad uno ad uno in robuste custodie. Un'onda di tenerezza riscaldò per un istante i due intirizziti seduti sulla panchina nel vedere questa scena. Ma la strana voglia in loro era più forte che mai.
Restarono in attesa seduti nell'ombra fino a quando i due vecchietti ebbero finito di raccogliere tutto il loro armamentario e lentamente cominciarono a dirigersi verso l'uscita. Allora si alzarono anche loro, e come due bimbi paurosi si presero per mano, un gesto che non facevano più da tempo. Il freddo che sentivano era più gelido o profondo di quello che li circondava. Se avessero potuto scegliere, in quel momento, sono sicuro che avrebbero voluto entrare in un lettone insieme al piccolo Pietro, tirare su la coperta fin sopra la testa e tenersi stretti per scacciare il freddo invincibile. Ma non potevano scegliere, e cominciarono a camminare seguendo discretamente a debita distanza i due vecchietti.
L'Apecar si avviò baldanzosamente verso la grande periferia della città, percorrendo strade viali e piazze per loro assolutamente sconosciuti. Più andavano avanti, e più la loro sicurezza veniva meno. Ognuno per conto suo, in perfetto silenzio, cominciarono a chiedersi cosa stavano facendo, a dubitare. Ma ogni volta che stavano per tornare indietro, là davanti riappariva l'Apecar che loro vedevano circondato da un'aura di luce rossastra, e la voglia ritornava ad affacciarsi.

8.
La casa era appartata e silenziosa. Sorprendente, per certi aspetti. Ti saresti aspettato di vedere arrivare i due vecchietti in uno di quei condomini sterminati della periferia, non in una villetta unifamiliare all’estremità di un viale alberato. Il sole era ormai tramontato da tempo ma i lampioni della via non erano stati ancora accesi. Così loro non vedevano perfettamente, anche perché si erano fermati ad una certa distanza dall’Apecar parcheggiato nel vialetto. Gli sembrò di vedere i due vecchietti caricarsi sulle spalle tutto il loro apparato scenografico e sparire sotto la casa, in quello che immaginarono essere un ripostiglio, una cantina. Rimasero in attesa per una buona mezz’ora ma non li videro riemergere, quindi immaginarono che la cantina avesse una scala interna che portava direttamente in casa . Per prudenza attesero ancora diversi minuti, poi lui la guardò negli occhi e ci vide dipinta la sua stessa muta apprensione. Sperando che all’ultimo momento lei avesse cambiato idea le chiese:
-Andiamo?
Ma purtroppo lei rispose semplicemente:
-Andiamo.
Le loro ginocchia scrocchiarono rumorosamente quando si tirarono su da dietro il cespuglio per incamminarsi verso la casa. Simultaneamente portarono l’indice alla bocca per fare shhh! e sorrisero come due ragazzi, come facevano da ragazzi nella loro vita precedente. So di questo particolare perché lei me lo ha raccontato centinaia di volte, e ancora oggi quando ogni domenica vado a trovarla lei mi racconta questo insignificante dettaglio. Chissà che significato ha per lei.
Il resto del racconto invece ha un significato ben preciso. Dice che si avvicinarono pianpiano alla casa come due ladri, spie, agenti segreti. Dice che la porta d’accesso alla cantina aveva un lucchetto pesante e solido. Mentre lui tornava alla macchina per cercare qualcosa con cui rompere il lucchetto lei prese a battere i denti dal freddo, dice. Il momentaneo calore di quel sorriso complice si era già dissolto. La luce della camera da letto si accese d’improvviso, e per un attimo lui si trovò come nudo illuminato dal fascio che proveniva dalla finestra. Istintivamente si buttò di lato e nella caduta si sbucciò la pelle sul gomito (destro). Nel racconto che mi ha fatto la prima volta (e che mi ripete ogni volta sempre identico) si perde e si dilunga in una miriade di particolari tipo gomiti sbucciati, gambe che scrocchiano, lucchetti arcigni, finestre illuminate. Come se non volesse arrivare alla fine del racconto, come se disseminasse il percorso di subdoli chiodi . Là in fondo, però, c’è sempre un’unica porta.
Dice che lo schiocco sordo del lucchetto rotto colpì le loro orecchie come uno sparo, e dalle orecchie penetrò nella testa e lungo il collo e il petto fino al cuore. Che non riuscivano più a far arrivare l’aria nei polmoni, dice. Si avventurarono così nella cantina come in apnea.

9.
In un primo momento quel che videro li rassicurò. Così dopo, quando capirono, fu infinitamente peggio. Non si fidarono ad accendere la luce così perlustrarono la cantina al debole chiarore della torcia elettrica mezza scassata che avevano buttato in macchina. Sembrava di essere stati catapultati nel film Pinocchio, mi dice sempre. Nella bottega di Geppetto, per l’esattezza. I burattini di legno destinati a diventare soldatini nel piccolo teatro del cantastorie erano appoggiati alla rinfusa sul bancone, alcuni finiti e pronti per essere pitturati e vestiti, altri senza un braccio, una gamba, la testa…

10.
Quella sera papà e mamma non tornarono a casa, e per tanti anni non li rividi più. La zia cominciò a preoccuparsi , poi cominciò a fare telefonate su telefonate, poi cominciò a piangere e io non capivo un cavolo di quello che stava succedendo. Andai a vivere con gli zii e nessuno mi disse niente fino a quando ebbi compiuto 18 anni, e anche allora furono molto reticenti.
La fine della storia, il destino di mio fratello Alberto e della mia famiglia l’ho saputo solo quando ho rivisto mia madre ormai vecchia nella clinica (una volta li chiamavano manicomi, poi li hanno chiusi)dov’è rinchiusa da allora. Entrando nella sua camera la trovai voltata verso la finestra. Non mi riconobbe, ma devo dire che questo di per sé non sarebbe sintomo sufficiente di labilità mentale, dal momento che anch’io faticai non poco a riconoscere lei. Non rispose al mio abbraccio né alle mie domande, così mi sedetti e rimasi in silenzio. Come mi avevano preannunciato, di lì a poco lei cominciò a parlare, sempre rivolta alla finestra. Faceva sempre così da anni, giorno dopo giorno, mi avevano detto. Ripeteva sempre la stessa storia, sempre uguale dalla prima all’ultima parola. Poi faceva una pausa di un’ora, e quindi ricominciava da capo. Incessantemente, spietatamente. La bellissima voce che mi aveva cullato nelle notti faticose dei miei primi giorni quella sì che la riconobbi al volo. Era rimasta intatta,miracolosamente dolce e serena come una volta. La storia cominciava così:
-So che è difficile crederlo, ma questa è la vicenda vera capitata proprio a me e alla mia disgraziata famiglia…
Potevo alzarmi e andarmene, quando ormai era chiaro che in fondo a quel tunnel non ci sarebbe stata luce, ma solo una tenebra ancora più fitta e profonda. Potevo farlo, lei non se ne sarebbe accorta e io sarei rimasto con il ricordo di Alberto che mi derivava dalle foto che mi aveva dato la zia anni fa. Potevo, ma non potei. Ero diventato di piombo, e rimasi appiccicato alla sedia mentre lei finiva di raccontare:
-Non so chi se ne è accorto prima, ma comunque sarà stata una frazione di secondo. Il mio cervello l’aveva già capito mentre il mio cuore rifiutava di accettarlo. Nell’istante preciso in cui ho capito che quelli non erano burattini di legno ma burattini di carne seppi anche tutto quello che era successo ad Alberto. Capii perché eravamo così intensamente attratti da quel posto, quell’angolo di parco, il cantastorie-orco che cantava Maramao perché sei morto, il suo sinistro teatro di soldatini, quel soldatino in particolare, mio figlio, il mio bambino, mio dio. Nello stesso istante deve averlo capito anche mio marito, perché ha sbarrato gli occhi ed è caduto per terra senza dire niente. Siccome era piuttosto vicino al muro si è appoggiato con la schiena ed è rimasto seduto così, con gli occhi aperti, ma con la testa tutta spostata in avanti. Sembrava quasi che si rimirasse il pisello ma non era vero naturalmente. Guardandomi intorno alla luce della torcia scoprii diversi pezzi di corpi di bambini, mi sembravano strani e non capivo perché, finché non mi resi conto che erano più piccoli del normale,miniaturizzati. Già, pensai, devono entrare nel teatrino in veste di piccoli soldati. Trovai fra tanti il mio Alberto in miniatura e lo presi tra le braccia. Odorava di vernice fresca. Lo baciai e rimasi così per un po’. Non so se ho pianto, non credo. La prego di credermi, Commissario, è tutto vero. So che è difficile crederlo ma è tutto vero.
Lei restò in silenzio, dopo aver finito di recitare tutta la storia con voce piatta e cantilenante. Io restai seduto incapace di qualunque movimento per alcuni minuti. Pensavo che sarei morto lì,fulminato come mio padre, invece mi alzai e me ne andai dopo averla abbracciata. Per dovere di completezza devo dire che mia madre venne trovata dopo sei giorni che si aggirava in un bosco. Iniziò subito a raccontare la sua storia con monotonia e cocciutaggine, ma naturalmente quando dopo molte ricerche la polizia individuò una villa che poteva rispondere ai requisiti i due vecchietti si erano volatilizzati, facendo sparire con loro qualunque traccia. In cantina, simpatico scherzetto, lasciarono solo a marcire la carcassa del mio povero padre. Di loro nessuno ha mai saputo più niente, ormai saranno morti da anni serenamente di vecchiaia visto che erano già un po’ avanti negli anni. Io sono ancora vivo, e questo è tutto.

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