lunedì 7 settembre 2009

Il Lettore Di Libri

(seconda puntata)
A chi dovesse interessare, la prima puntata risale al 13 febbraio 2009

3.
Nel loculo dove leggo non ci sono molte comodità, né distrazioni. D’altronde devo leggere, non distrarmi, e a me va benissimo così.
L’unica cosa che mi concedo, di quando in quando, è un sorso di quella insapore bevanda scura e bollente che fuoriesce dalla macchinetta ogniqualvolta si preme con temerarietà il pulsante recante la scritta: caffè.
L’altroieri ero lì davanti alla macchinetta intento a rovistarmi le tasche alla ricerca di qualche spicciolo.
Di spiccioli manco l’ombra, ma in compenso ecco che ti salta fuori dalla tasca un foglietto di carta ingiallito e spiegazzato.
Ancora prima di iniziare a leggere mi interrogai sulla provenienza di quel foglietto dimenticato, e un flash improvviso mi riportò al momento in cui il volume della Treccani stava sorvolando silenziosamente la mia testa. Il ricordo era così vivo che mi è venuto da abbassarmi di scatto per evitare che il tomo mi colpisse. Subito dopo mi sono guardato intorno per vedere se qualcuno mi aveva notato. Fortunatamente nessuno mi nota mai. Che stupido!, pensai. D’altra parte mi ci sentivo spesso, stupido. Meglio ancora: inadeguato. Per l’esattezza mi sentivo così ogni volta che uscivo da un libro ed entravo nella cosiddetta realtà.
Non era scritto a mano ma battuto a macchina, e non appena i miei occhi si posarono su quel foglietto le mie gambe si fecero di burro. Ora svengo, pensai. Il motivo? Le lettere erano un po’ disallineate, e questo mi ricordò in un lampo la vecchia Lettera 22 che avevo amato perdutamente, più di qualunque fidanzata (se mai ne avessi avuta una) durante gli anni del liceo.
Quando ami, perdoni tutto. Di più e meglio: ami i difetti dell’amata o dell’amato come fossero virtù. Ora, che in questo caso l’amata non fosse un essere umano di sesso femminile ma una macchina da scrivere prodotta dalla Olivetti quando era la Olivetti, questo è solo un dettaglio irrilevante. Fatto sta che quelle lettere saltellanti mi procurarono una fitta di nostalgia quasi insostenibile.
Il significato delle parole formate dalle lettere danzanti, invece, mi risultò assolutamente incomprensibile:

“Mentisce chiunque dici, io sono. Fosti vivo, e sarai vivo col forse. Vivi le morti del tempo che fù, muori le vite del tempo che sarà. Finisce di morire chi muore, comincia a morire chi nasce. Ogni istante d’ora, scava un po’ di terra alla fossa: ogni fiato ne porta via una particella di vita.”

Talmente incomprensibile che decisi di dimenticarmene, ma invece conservai il foglietto per il modo sublime in cui era scritto. Meravigliosamente disordinato, intendo.




4.
Fu facile dimenticare quelle oscure parole anche perché erano giorni molto convulsi, per me, e io ero totalmente concentrato su un grande progetto. Ero da poco approdato nella nuova casa editrice, e il mio primo bambino stava per venire alla luce. Di lì a pochi giorni Glok la Sfinge sarebbe stato lanciato in tutto il paese con una tiratura straordinaria per una prima edizione: duecentomila copie. Era una grande dimostrazione di fiducia nei miei confronti, ma stranamente non provavo alcuna ansia, perché ero assolutamente sicuro che sarebbe stato un enorme successo.
Lo so che avevo fatto una cosa un po’ inusuale portandomi dietro il manoscritto di Glok dalla mia precedente casa editrice, ma devo dire che in quell’occasione il mio capo, il lanciatore di enciclopedie, si dimostrò molto generoso. Quando gli dissi che andavo via, nonostante fosse molto intristito mi disse che non mi serbava rancore, e per dimostrarmelo mi diede l’autorizzazione a portarmi via Glok la Sfinge, dicendomi che quella dovevo considerarla la mia dote.
Ora che ci ripenso, ricordo che sul punto di andare via dalla mia vecchia casa editrice per lanciarmi in questa nuova avventura c’è stato un momento in cui ho pensato che non fosse stata al cento per cento una mia decisione.
Vi racconto com’è andata, così anche voi potete farvi un’idea. Qualche giorno dopo il burrascoso incontro con il grande capo (quello con i tomi della Treccani che volavano da una parte all’altra ad altezza d’uomo) ricevo una telefonata inattesa. Doppiamente inattesa, anzi.
Il loculo dove vivo è appena più grande del loculo dove lavoro, essenzialmente perché ci sono un cesso e un angolo cottura. Che a dire il vero potrebbe anche non esserci. L’angolo cottura, intendo. Basterebbe un microonde, tanto quasi tutto quello che mangio proviene dalla rosticceria sotto casa. Quando poi non faccio troppo tardi e trovo ancora una succulenta mezza aragostina bollita, non mi serve manco il microonde. E’ già pronta, aperta, felice, e alla temperatura ottimale. Qualcuno potrebbe dire che il mio stile di vita è dispendioso. Quel qualcuno avrebbe ragione, infatti il mio conto in banca non conosce il colore nero da diversi anni. D’altra parte mi sono detto: Viaggiare: non viaggio. Fumare: non fumo. Donne: niente. Droghe: nemmeno. I libri me li passa la casa editrice. I film li scarico gratis da internet (questa non so se me la passano). Vestiti non ne compro. La mia macchina è ancora la Kadett color aragosta (ci sono delle costanti) che ho comprato usata nel 1985. Quindi vaffanculo, mi potrò anche concedere di comprare del cibo pronto, o no? Voglio vedere se qualcuno ci trova da ridire.
Che finisca alle 6 o alle 7, che finisca alle 9 o più tardi (e allora sono cazzi perché deve entrare in azione il microonde per scongelare qualcosa), che finisca pure a mezzanotte come accade spesso, la mia giornata finisce quando uscito dal loculo lavorativo entro nel loculo abitativo, e chiudo la porta dietro le mie spalle. E’ un gesto al quale attribuisco grande valore simbolico. In quel momento non chiudo solo la porta. In quel momento chiudo il mondo di fuori, e io mi chiudo dentro. In quel momento il mio loculo è il paradiso in terra, e io ne sono l’unico re e l’unico dio. In quel momento non esiste niente se non io, il mio libro e la mia generosa mezza aragostina che si offre in sacrificio per il piacere del suo padrone. Talvolta esiste anche una bottiglia di un buon Sauvignon del Collio, ma questo è un vero optional di felicità.
Mi trovavo in questo stato mentale (compreso il Sauvignon) quando è squillato il telefono. Il telefono fisso, quello di casa. Un suono per me talmente alieno che all’inizio pensavo suonasse dai vicini, quella manica di bastardi. Poi visto che insisteva ho cominciato, non senza bestemmiare tutti gli dei di tutte le religioni monoteistiche e politeistiche a me note, a cercare in ogni angolo della mia vasta magione l’origine di quel suono sconosciuto. Avrà squillato una ventina di volte prima che individuassi il telefono incastrato sotto il divano letto e una volta disincastrato l’oggetto misterioso riuscissi a sollevare la cornetta.
-Pronto, chi parla?
-Parlo con il dottor Bartoli?
-Visto che ha chiamato lei, prima mi dica con chi parlo io, poi casomai le dico con chi parla lei. (Eccheccavolo!)
-Ha ragione, mi scusi. Sono Cisnaghi, il CEO della casa editrice Filippini. Vorrei parlare con il dottor Bartoli. E’ lei?
-(Cazzarola!) Bartoli sono io, ma a dire il vero non sono dottore. Sono solo un umile editor.
La voce di Cisnaghi era calda e gioviale.
-Su, Bartoli. Non faccia il modesto. Ho sentito grandi cose su di lei. Sono felice di conoscerla, ma vorrei conoscerla meglio, e di persona. Cosa ne dice di vederci a pranzo domani, può?
E da chi le avrà sentite queste grandi cose su di me?
-Domani, domani, mi faccia controllare un attimo la mia agenda…
La mezza aragostina mi stava lanciando una mezza occhiata tra l’implorante e il geloso. Sorseggiai un goccio di Sauvignon che nel frattempo si era scaldato. Cazzo!
-Ok, domani a pranzo può andare, dottor Cisnaghi.
-Perfetto, allora. Ora la lascio. E mi scusi di averla disturbata a casa. Buonasera.
-Si figuri, buonasera. (pausa). A proposito, come ha avuto il mio numero di casa dato che non sono sull’elenco?
-…..
Un classico. Quello aveva riattaccato già da un pezzo. Se solo fossi un po’ più svelto a pensare. Ma si può chiedere a un bradipo di sfidare Usain Bolt sui cento metri? Certo che no.

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