mercoledì 21 gennaio 2009

Quello che so

(Tragicommedia ambientata nel magico mondo della pubblicità)
Quinta puntata

13.
Il dottor Calogero Moiano aprì una scatoletta di tonno e non si tagliò. Sorpreso di questa novità versò i fagioli sopra il tonno e la maionese sopra i fagioli. Questo era il massimo del tempo che concedeva a se stesso per la preparazione della cena. Stappò una birra e si sedette a tavola insieme alla pratica M.
Non che non avesse altre pratiche aperte. Anzi, la sua scrivania stava traboccando. Ma la pratica M. era la pratica M. Un caso troppo difficile per non eleggerlo a caso della sua vita. Non c’era stato niente, prima dell’omicidio di quel patetico imbecille vestito di bianco. E non ci sarebbe stato niente dopo. Moiano lo sapeva benissimo, perché lui era fatto così: quando un caso gli diceva “Lasciami perdere, non valgo un cazzo, quello sta bene la dove sta, oggi in una bara, domani sotto un metro di terra. Non gliene frega niente a nessuno, sono un caso di merda, seppelliscimi in un cassetto e dimenticami” era proprio quello il momento in cui cominciava ad eccitarsi. Era una questione di carattere.

14.
Al cimitero monumentale di Milano c’erano tutti, compresa l’afa. Come tutti sanno, il clima a Milano è veramente una merda. Come sa chi ci abita, luglio è il mese più tremendo. Chi può scappa, chi non può si presenta al funerale di Francesco M, possibilmente con vestiti leggeri.
Francesco M., prima di trovarsi di fronte alla sorpresa finale, era stato uno che non lasciava nulla al caso. Nel tentativo quotidiano di alimentare la sua leggenda aveva lasciato scritto nel suo diario, anzi nella bozza della sua autobiografia, che al suo funerale avrebbe voluto che tutti fossero vestiti rigorosamente di bianco. Per la verità lui aveva scritto letteralmente: ‘la mia dipartita da questa valle di lacrime si trasfigurerà in un estatico trionfo di candore’, ma insomma, più o meno il senso era quello.
La povera madre di Francesco aveva trovato queste righe del figlio e aveva voluto che fossero pubblicate sul Corriere, il giorno prima delle esequie. Naturalmente, la maggior parte delle persone se ne sciacquò le palle delle ultime volontà del caro estinto, o più semplicemente non le capì. Così gli unici vestiti di bianco erano il consiglio di amministrazione della Altoprofilo, e facevano un po’ ridere perché sembravano degli Hare Krishna in pensione.
Calogero Moiano prese il nome di tutti i partecipanti, poi li convocò uno a uno e rivolse a tutti la stessa domanda:
“Perché è andato al funerale di Francesco M?” ottenendo da tutti la stessa risposta:
“Volevo essere sicuro/a che quello stronzo finisse sotto terra.”
Ma il dottor Calogero Moiano non si perse d’animo.

15.
Entrando in casa Roberto Benati venne assalito dai suoi figli. Erano passati due anni da quando erano morti insieme alla loro madre, ma ogni sera quando apriva la porta del suo appartamento se li ritrovava davanti. Un altro al suo posto avrebbe cambiato casa, buttato via tutto. Non se l’era sentita. In ogni stanza c’erano cose che parlavano di loro, e del modo in cui erano morti. Sulla mensola del bagno, una bambola con i capelli bruciacchiati. Sulla libreria in salotto, un brachiosauro di plastica parzialmente liquefatto. Ognuno elabora il lutto come può e come riesce. Roberto Benati tornava a casa ogni giorno più tardi e usciva ogni mattina un po’ più presto, sperando che il tempo facesse il suo lavoro.

1 commento:

mazza ha detto...

Eccomi qua.

Confesso che appena ho cominciato a leggere "Quello che so" ho pensato che sarebbe stato divertente immaginare un gioco di somiglianze e rimandi con questo o quello.

Alla fine però la cosa minacciava di intristirmi, perciò mi sono tenuto il piacere di leggere, che è durato fino alla fine.

Quindi ti invito perentoriamente a postare il seguito della storia... certo del fatto che tu non abbia finito le cose che sai.

A proposito, il titolo mi piace molto.

Giuseppe